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«Milano si risveglia con palme e banani in piazza Duomo. Come nella tradizione ottocentesca. Buona o cattiva idea? Certo che Milano osa eh».

In questo tweet del sindaco Beppe Sala si dava il subliminale benvenuto alla catena di caffetterie statunitense Starbucks, che in attesa di inaugurare il primo megastore italiano di Piazza Cordusio, ha vinto il bando di sponsorizzazione indetto dal comune e regala alla città un esotico giardino, sulla cui pertinenza ornamentale preferirei soprassedere, benché il darlo alle fiamme sia stato ovviamente gesto soverchio. Oggi Howard Schultz, amministratore delegato Starbucks, ha presentato a Palazzo Marino il suo progetto, «costruire una vera fabbrica del caffè», come quella “storica” di Seattle, poi replicata a Shanghai e in futuro a New York e Tokio. Un’apertura al celebre investitore che dovrebbe garantire 350 posti di lavoro, oltre ai 200mila euro assicurati dalla già avvenuta sponsorizzazione del giardino (wow!).

Milano osa, dunque. Il 15 gennaio scorso aveva già osato chiudere lo storico cinema Apollo, inaugurato nel 1959, per lasciare spazio a un Apple store, malgrado le romantiche e velleitarie petizioni degli spettatori, e ora osa accogliere bicchieroni di plastica nella patria della tazzina, invitate a patrocinare un verde urbano appecoronato a emergenti sensibilità fitologiche. Nulla di cui meravigliarsi, naturalmente; già l’atelier McDonald incastonato in Piazza dei Mercanti aveva accarezzato i nostri sensi con tutte le più raffinate lusinghe della globalizzazione. Seduti innanzi alla Loggia degli Osii, dall’austera parlera sembra di scorgere l’aquila stringere un soffice Big Tasty, facile preda sfornata dal vicino fast food.

Si va dunque vieppiù inverando l’analisi di Pasolini: quel totalitarismo che fu tragica e patetica aspirazione di nazionalsocialismo e stalinismo, trova compimento nel capitalismo avanzato della società dei consumi. Le persone muoiono, e a questo nessuno è ancora riuscito a porre rimedio, neppure il jogging, la birra analcolica e la cucina senza glutine. Ma noi assistiamo contestualmente allo spegnersi di universi simbolici che potremmo, che avremmo il dovere di preservare. Si estinguono ecosistemi complessi e irriproducibili in un clima che oscilla fra l’indifferenza e il compiacimento sfottente: “E’ il progresso! Bisogna andare avanti!”, si legge nei commenti del Corriere online. “Finalmente qualcosa di interessante anche nel centro di Milano!”, scrive un altro cittadino. Questi individui sono più letali, più parodistici dei nazionalsocialisti. E’ la schiavitù della ragione strumentale che si crede emancipazione. E’ la sopravvivenza del virus dispotico nell’organismo democratico. L’alabarda spaziale dell’omologazione asina si scaglia su ciò che la nostra memoria collettiva aveva custodito, livella tutto alle macerie dello shopping mall e dei multiplex di periferia, dove le famiglie figlie del progresso-regresso passano le domeniche plasmando l’immaginario delle nuove generazioni. Mi ero già macerato nel cordoglio per la chiusura di antichi negozi meneghini, unici al mondo, masticati, mangiati vivi da catene internazionali, che già nel nome propagandano la loro idea di libertà. E il consumatore mi consola manifestando estroverso sollucchero per l’approdo di Starbucks come per l’inaugurazione di un Apple store o di un nuovo centro commerciale. Uguali a Milano, a Los Angeles e a Seul. Un oniomaniaco che assassina la differenza con la fissione nucleare dell’indifferenziato e poi pretende di sentirsi speciale, di essere vivo; che veste meccanicamente il mass market ma lo vuole col profumo artigianale; va alla Taverna, alla Salsamenteria, all’Osteria, perché ha sentito tanto parlare delle tradizioni, ma cerca i tortelli piacentini o il manzo all’olio rovatese in uno skyscraper metropolitano, perché la locanda autentica è da anziani di provincia, non è abbastanza Instagram-friendly. Spende i soldi guadagnati dalla propria alienazione quotidiana in un ufficio per i ritrovati dell’industria fatta in serie, ma si sdilinquisce per il fatto a mano, che non esiste più nemmeno nelle pugnette, ormai prevalentemente virtuali. Un tempo andavamo al Caffè e c’era il bullo al flipper, le compagnie al biliardo o al calcio balilla, i pensionati alla briscola: oggi ci sono gli zombie delle slot-machine. Mentre le avanguardie metropolitane degusteranno un frappuccino per sentirsi cool come i newyorker cosmopoliti.

I mondi della memoria, diversi da paese a paese, da città a città, dalla formidabile ricchezza espressiva, bollati ora come passatismi da nostalgici del droghiere, sono, erano l’eredità di chi non c’è più. Dei nostri antenati, dei nostri nonni, di mamma e papà. Come la nostra, che un giorno più non saremo. Erano strutture di riferimento che permettevano di pensare, di sentire il reale in una unità coerente fra passato, presente e futuro, che offrivano un significato condiviso alle azioni dei singoli e li proteggevano dalla vertigine della provvisorietà, cui l’unica alternativa oggi sono gli algoritmi di Mark Zuckerberg e il suo mondialismo d’accatto. Ma noi stessi saremo gli aguzzini del nostro olocausto, lasceremo in eredità il nulla che stiamo costruendo, senza epos né solidarietà, vuoto di finalismo o trame di senso, animato solo dalla demenza compulsiva, grottesca e sacrilega dei morti viventi: ci annulleremo come la Grazia del Duomo che Milano osa nascondere sotto le insegne luminose delle mutande Moschino.

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