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Il cane ha conquistato il mondo. Una conquista pacifica, gentile, ma non per questo meno eclatante. Quando i nostri nonni erano bambini – quindi sì nello scorso millennio, ma non tanto tempo fa – l’animale proletario stava assicurato alla catena; oggigiorno, lega pubblicamente un cane alla catena e rischi qualche mese di galera. Il quadrupede signore, invece, risiedeva a cuccia, magari in giardino, mentre ai più viziati era concesso baloccarsi con un osso e accomodarsi sul tappeto, vicino al camino; ora il cane va in ufficio, a far shopping, prende il taxi, i fiori di Bach, dorme fra le lenzuola, al ristorante siede a tavola ed è protagonista sulle piattaforme dei social network. Inoltre caca dove più gli aggrada, conscio di non aver ulteriori responsabilità. Diciamocelo, quale mademoiselle raccoglierebbe gli stronzini del proprio fidanzato sul marciapiede o anche solo sul pavimento di casa? Eppure, se sono del proprio cucciolo peloso, lo fa con gaudio e allegrezza. Non c’è parco o giardino pubblico dove io possa consumare un déjeuner sur l’herbe, perché l’erba voglio è soltanto loro e spesso anche le panchine. Nell’ultima pubblicità dell’iPhone Apple, il cane viene appena dopo il partner e prima degli amici fra gli affetti da immortalare con la nuova fotocamera.

 

I Paesi più evoluti del pianeta, come l’Olanda, stanno combattendo il randagismo fin quasi a eliminarlo, ma in generale c’è crescente sensibilità verso la sterilizzazione e verso un possesso maturo della bestiola. Mentre in Europa si fanno sempre meno figli, la domanda di animali domestici è in costante aumento. Nel Regno Unito la cifra di cani si sta avvicinando a 10milioni, mentre in Italia sono circa 7milioni. Numeri impressionanti.

 

Tante le ragioni di questa straordinaria avanzata; innanzitutto, la compagnia di una cane sembra essere l’unico balsamo contro la violenza dell’individualismo conformista che sta torchiando l’umano. Crescere un puppy richiede grandissimo spirito di sacrificio, anche economico, eppure questa consapevolezza sembra non preoccupare e ci si immola con piacere quando ciò che si ottiene in cambio è medicamentoso per lo spirito. Forse perché questo animale è l’anima del mondo, come l’Atma di Schopenhauer, o forse perché «chi non ha mai posseduto un cane, non sa che cosa significhi essere amato». In ogni caso, l’immagine dell’amore perfetto che riflette si sta dimostrando quasi irresistibile.

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La conseguente ed inedita essenzialità del cane ha progressivamente portato molti padroni – o partner, come sarebbe più acconcio scrivere – a umanizzarlo. Prima di vivere con il quadrupede in questione, confesso, anch’io prendevo esplicitamente per il culo chi lo portava dallo psicologo, dal coiffeur o dall’estetista. Cionondimeno, dormirvi a fianco è un’esperienza che avvicina i nostri mondi, fin quasi a sovrapporne le liturgie quotidiane. Mentre riposa, il peloso presenta il nostro stesso ritmo nel respiro, russa, si gira e scalcia, tira il piumone dalla sua parte; sogna, ha gli incubi, abbaia nel sonno, non potendo parlare; il cane, come molti di voi, nel torpore emette tonanti flatulenze, e sfido qualunque luminare di zoosemiotica a convincermi che c’è qualche significato legato al corteggiamento; sono semplici scoregge. Di conseguenza, suggerisco a tutti gli scettici che travisano Aristotele e Lorenz, di passare una notte di letargo con una bestia, per capire che almeno nelle ore di incoscienza… non è tanto meglio di noi. Inoltre, sono convinto che molte petizioni di principio legate al razzismo e alla discriminazione si modificherebbero se tutti vivessero a contatto con queste creature. Un cane ti insegna indeed, oltre ogni ragionevole dubbio, che c’è la razza; non lo si può negare. Ma c’è anche, stricto sensu, l’individuo; confutarlo è impossibile. Contestualmente ci sono l’esperienza vissuta e l’educazione ricevuta, che plasmano e definiscono. Difficile dire in quale percentuale ogni aspetto modifichi il risultato, cioè la caninità finale. Eppure è chiaro che questa – comune a tutti eppure sempre unica – ne è sintesi.

 

Ancor prima di prendere in affidamento un bracco dei Pirenei, circa tre anni e mezzo fa, ero convinto che il cane da caccia fosse una delle maggiori conquiste dell’umanità. Paragonabile al Mausoleo di Alicarnasso, ai giardini pensili di Babilonia, alla Cappella Sistina o all’esplorazione spaziale. Sempre Schopenhauer scriveva come in origine fosse un animale rapace, che l’uomo ha coltivato facendone compagno domestico; un lupo da appartamento. Ebbene, nel cane da caccia – benché inizialmente per ragioni di mera sopravvivenza – l’uomo ha saputo selezionare, esercitare e tramandare il magico punto di equilibrio fra natura e cultura. Ha educato la bestia al focolare senza mai veramente strapparla al bosco. Ed è una cosa che suscita autentica meraviglia. Ma anche nel comportamento della più addomesticata e urbanizzata fra le razze, si ravvisa quell’entelechia perfetta, quella finalità interiore felicemente compiuta, quell’essere dentro il proprio scopo che così spesso sfuggono all’essere umano.

 

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La centralità del cane – e in generale dei pet, perché anche il gatto è sempre più re della foresta domestica – ha corroborato una presa di coscienza collettiva attenta ai diritti degli animali, che in Occidente ha reso molto popolari l’animalismo, il vegetarianismo, il veganismo. Le nuove generazioni, imbarbaritesi pressoché in tutto, sono almeno più avvertite delle precedenti su questi delicatissimi temi e non concepiscono le bestie (perlomeno alcune) come cose. A mio giudizio, senza voler iniziare una trattazione che richiederebbe un blog a parte, l’abbrivo di una nuova era di civiltà si sprigionerà non nel momento in cui tutti i cani del mondo saranno trattati come esseri umani, bensì quando tutte le specie animali – pulcini e porcellini compresi – avranno pari dignità e simile aspettativa di vita dell’ultimo dei cuccioli da compagnia.

 

 

 

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