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Quest’anno mi ero ripromesso di ignorare il Salone del Mobile, non tanto per snobismo gratuito, quanto per un’assoluta inadeguatezza a intercettarne gli impulsi culturali o a comprenderne i cerimoniali; ma un testimone è pur sempre comandato a testimoniare anche a beneficio di chi presagisce le stesse perplessità. La fiera internazionale, giunta alla sua 56esima edizione, è rimarchevole, ben organizzata e capace di convogliare il mondo intero in Italia. Inoltre, nel prosieguo conviviale e metropolitano del Fuorisalone apre al pubblico luoghi di Milano solitamente inaccessibili o negletti, vivacizzandoli con «eventi»– accezione lessicale che ho sotto la coda come un mazzo di ortiche – meritoriamente azzimati da cocktail, musica, degustazioni e belle fighe.

 

Cionondimeno, il melting pot ipertrofico e iperconcentrato crea qualche cortocircuito. Un tempo la lingua franca del business come del design era l’inglese; oggi – e lo affermo con la dovuta solidarietà verso la distinzione gay che ne subisce i contraccolpi di immagine – è il ricchionese: se ti agiti tarantolino e super excited, svolazzi con le mani e strilli «so creative!»… fai amicizia. Se vesti classico, non ti scomponi e parli a bassa voce ti guardano come fossi una mummia uscita dalle catacombe dei Cappuccini di Palermo.

 

Ci sono poi molte parole e polirematiche macchiettistiche che circolano nell’aria, fra le quali la più farneticante è senz’altro «artista». Fino a qualche anno fa ci si limitava a creativo, ora si fa sul serio. C’è l’artista dell’abat-jour (vero genio della lampada), l’artista del pouf, l’artista della seduta e quello del bidet. Tutti maestri, virtuosi dello «spazio»; altro vocabolo al quale bisogna addestrarsi come all’assenza di gravità per vivere autenticamente l’esperienza. Per cui, mi capirete, vale la pena documentarsi, accorrere e andare di corsa. Antipatiche zavorre all’estro si rivelano la stanchezza, l’affanno, le sfibranti maratone fra stand e padiglioni. Le distanze sono aeroportuali, la folla, i tacchi, le zeppe, i primi caldi e le fatiche fotografiche pro Instagram (poco fa ho visto immortalare due volte il cartellino «cotto e squacquerone» di una piadina arrotolata) rischiano di fiaccare l’immaginazione. Anche la proverbiale esuberanza del presidente Mattarella è apparsa infatti a buon diritto svigorita.

 

Provvidenzialmente, se c’è qualcosa che proprio non manca in un Salone del mobile sono sedie, poltrone, divani e chaise-longue. Bene. Sono allo stand Poliform, in un raro angolo di urbana costumatezza, allorché noto una guida italiana che con grande affabilità e rigore descrittivo porta in tour un big client asiatico molto austero e chán; lo addottora su collezioni e lavorazioni, materiali e suggestioni, tradizione e innovazione, fin quando arriva alla stanza da letto dove si trova costretta a dover spiegare l’inopinata installazione: un giovane visitatore catalano in pinocchietti mimetico-bracaloni, calzino lavanda alla caviglia e visiera «Los Fastidios» semisvenuto sull’iconico Jacqueline bed, design Jean-Marie Massaud…

 

 

 

 

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