David

Una delle più insopportabili stramberie della contemporaneità è l’attitudine a giudicare fatuo chi parla di abbigliamento maschile. Se a nessuno viene in mente di considerare puerile e sciocco chi si preoccupa del risultato di una partita di pallone o del finale di una serie tv quando c’è tanta gente che ha neppure i soldi per l’HD, è sufficiente fare un singolo commento relativo a pochette o gemelli che si passa per frivoli salottieri, colpevolmente ignari dei crucci del mondo. «Ditemi che ho sbagliato una battuta, ma non che ho sbagliato una cravatta», ammoniva David Niven, uno degli uomini più distinti del secolo scorso. Oggi una considerazione di questo tipo verrebbe percepita dai più come affettata.

Questa idiosincrasia nasce dal complesso dell’ignoranza. In una società dove le più incantevoli ricercatezze sono state spazzate via da una scrofolosa spontaneità, non si saprebbe che dire, così l’argomento diventa tabù. Certo la repulsione non è motivata da un mal visto ossequio alla vanità, come potrebbero sostenere gli ipocriti; non è dal pulpito della cattedrale di un austero moralismo che arriva la predica, ma dal lettino di una ceretta inguinale, poiché viviamo in un’epoca in cui gli uomini non sanno scegliere una cravatta, ma si specchiano più delle liceali, acconciano le sopracciglia e si mettono le creme antirughe sul deretano dopo esserselo depilato.

 

Una vanità di ben più meschina natura ci ha colonizzato, schiavizzato, tarata sulla cultura delle palestre e dei solarium. Se voci raggelanti come shopping, outfit, outlet ed hair stylist sono entrate nel linguaggio comune, altre, più edificanti, sono state condannate all’estinzione. La moda, che ha sostituito le maniere, mutando in fretta e sempre in superficie permette di copiare senza preoccuparsi di sapere, coccola l’impulso conformista emarginando l’insolenza dell’autosufficienza; quindi va molto di moda.

 

Sotto questi chiari di luna, un affermato maschio di mezza età nostrano, di buone letture e frequentazioni, con ogni probabilità non è mai entrato in vita sua in una sartoria, non saprebbe come lucidarsi le scarpe – se solo si ponesse il problema di farlo – e non sarebbe in grado di distinguere la seta dal cotone; si incendia sigarette impregnate di pessimo tabacco con accendini di plastica e se la dama al suo fianco sussurra la necessità di un fazzoletto, non avendone in batista di lino imbevuti di lavanda nella faretra della propria galanteria, le porgerà un rettangolino di carta igienica con scritto Kleenex. L’abbruttimento dei costumi in cui versiamo, malauguratamente, non è un fenomeno circoscritto all’Italia e alle sue élite – basti immaginarsi le famiglie Kennedy e Trump affiancate – ma senz’altro le vette che il nostro Paese poteva vantare rendono ancor più vertiginoso l’abisso grottesco dove siamo precipitati. La distanza fra Giovanni Agnelli e Lapo Elkann rende bene l’idea. Lo sport poi è emblematico, basti mettere a confronto l’era dei club con quella degli sponsor, i gesti bianchi con i loghi fluo, Walter Hagen con qualsivoglia golfista professionista del Pga Tour. Ma è sufficiente osservare l’immagine del pubblico di uno stadio negli anni 50 e quello di oggi per avere una vivida istantanea dell’involuzione generale. Dal lassismo formale a quello morale il passo è breve… e tant’è.

 

La deriva dello stilismo che decimò le sartorie e le botteghe artigiane, gli orrori del fashion che hanno messo in fuga il classico, lo sfarinarsi di ogni codice, il ready to wear, la globalizzazione, mercificazione e stobbuco dell’azzoto hanno fatto stramazzare un’intera civiltà e ora ballano un krumpin’ primordiale intorno al suo corpo morente. Ma non è colpa mia… se esistono carnefici, se esiste l’imbecillità; quindi non trovo sano dolermi oltremodo del degrado dei tempi; alziamo gli occhi al cielo, è primavera! Mi limiterò piuttosto a mettere in fila le personalità italiane che maggiormente si distinguono, in positivo e in negativo, nell’arte del vestire.

 

Oggi sono di buon umore e passerò in rassegna solo quelli che si salvano. La prossima volta mi macererò nel selezionare un tragico campione di squallore fra l’infinita sequela di giacalüstra alla Giletti, bracaloni alla Salvini e radical shit che olezzano ai vertici del nostro Paese. Prima però una piccola precisazione, che spero risulti utile e non didascalica: vestire bene ed essere eleganti non sono sinonimi. Sì può vestire bene e non essere eleganti o essere eleganti anche con l’accappatoio e le babbucce di un motel amburghese. L’eleganza ha a che fare con il governo della propria individualità, è l’inafferrabile e aggraziata fusione fra i moti del corpo e dello spirito, mentre il vestire bene attiene al gusto e alla cultura. Colui il quale possiede un’eleganza naturale nel contegno e sa vestirla con garbo e adeguatezza… merita di essere chiamato gentiluomo. Come possiamo osservare, ne sono rimasti pochi.

 

Se l’eleganza non si può insegnare né imparare, il gusto può in qualche misura essere affinato ed è sensibile all’interazione con l’ambiente, mentre la cultura deve senz’altro essere edificata. Vestire è un linguaggio e come tale necessita di una morfologia, di una sintassi e di una semantica. Certo ci si può far capire anche facendo grossolani errori, ma chi ha rispetto di sé e per la lingua con la quale conversa preferisce esprimersi correttamente. Una volta acquisite le nozioni necessarie per comunicare in maniera adeguata, si può ricercare l’eloquenza. Quella di Pericle, con le mani incrociate sotto il mantello. E questa è aspirazione degna di un uomo.

 

Vediamo allora i sei signori italiani degni di menzione, distillati fra personalità note al grande pubblico. Altrimenti sarebbe stato necessario iniziare da Luciano Barbera, Mario Caraceni e da altri fuoriclasse che non giocano sotto i riflettori della popolarità.

 

 

 

Vittorio Feltri: il migliore fra i giornalisti. Unisce a un portamento verticale, gotico, un sapore vagamente edoardiano, e mostra tatto nella scelta dei capi come degli accessori. Tweed, gabardine, cheviot, flanelle, grisaglie, anche per le stoffe il direttore di Libero sa servirsi di quel ricchissimo giacimento di soluzioni che la massa dei colleghi ignora (il Lovat con poche altre gli sono sconosciute) e mostra di avvertire la differenza fra il giorno e la sera. Se nei tagli si nota la mano di Tindaro De Luca, gli accostamenti decantano il suo talento cromatico, già evidente nella scelta degli acetati e certificato dalle non facili jacquard. Anche il fermacravatta, che apparirebbe pretenzioso se esibito dal parvenu, su di lui trova altera collocazione. Vestendo spesso capispalla molto accollati, gli sconsiglierei di allacciare il primo bottone.

 

Luca Cordero di Montezemolo: allievo prediletto della finishing school più prestigiosa d’Italia, cade raramente in errore, se si esclude qualche gingillo di troppo, fra spillette e braccialetti vari. Disinvolto nel passare dal registro formale a quello sportivo, dal cda alla pista, veste con proprietà anche i doppiopetto più solenni, le lanceolature più affilate e gioca magistralmente tanto con le flanelle cardate quanto con i gessati worsted, anche se questa libertà lo porta a spalancare i colletti della camicie sui baveri delle giacche con giovialità financo eccessiva. Certamente gli manca il titanico carisma, quella capacità di trasgredire senza straripare, di infrangere pur rispettando; ma di Avvocato ce n’era uno… e certi segreti non possono passare neppure da bocca a orecchio.

 

Franz Botré: Editore e direttore dal gusto sicuro e con profonda cultura dell’immagine, traduce nel vestire la sua limpidezza di visione. Al vivo senso del colore unisce la capacità di mescolarlo e un pregevole istinto per la cravatta giusta. Anche sugli orologi non sbaglia, svariando con maestria dal vintage al contemporaneo, dai dress watch ai diver professionali. La vasta conoscenza di divise e uniformi ne fanno un riferimento per le corrette declinazioni civili della prammatica militare, dal blazer al caban, dal trench al Monty coat, dalla sahariana al basco. Gli si possono rimproverare i pantaloni portati un filo sostenuti, benché mettano in mostra calzature meritevoli di proscenio.

 

Carlo Rossella: piace alla gente che si piace, scrissi di lui anni fa. In effetti la connaturata piacioneria ne ridimensiona un po’ l’austerità, che nelle foto appare invece eminente. Abile sia con i tessuti estivi sia con quelli invernali, si esalta nei mohair e nelle dinner jacket. Apprezzabile competenza nella scelta delle cravatte regimental. A differenza del più giovane e celebrato Matteo Marzotto, sa far buon uso dei dolcevita in cashemire, non abbinandoli a capispalla pettinati, colpevoli di riflettere troppo la luce. Disdicevoli le scarpe logate con cui è stato talvolta immortalato. Inoltre, è spesso troppo abbronzato. Un tempo poteva essere high life passeggiare per l’inverno meneghino ostentando un sole caraibico sul volto; oggi che a Santo Domingo o a Barbados in gennaio vanno a rosolarsi anche le cassiere di Equitalia, meno.

 

Bruno Vespa: senza dubbio il meno peggio fra i tanti sgangherati conduttori televisivi. Nulla di millesimato, ma certamente potabile. Andando in onda la sera tardi, predilige con avvedutezza i completi blu in tessuti scattanti, che vivacizza cromaticamente con declinazioni che vanno dall’oltremare fino al midnight, abbinati a francesine nere lisce ben specchiate. Conservativo e protocollare con le cravatte – annodate talvolta senza altrettanto rigore – lascia intravedere segnatempo vintage dell’epoca d’oro. Padrone dei propri panni, non si ha mai la sensazione che sia la moglie a vestirlo. Dopotutto, è sempre il ragazzo che tutte le mamme vorrebbero per le loro madri.

 

Vittorio Sgarbi: il genio ferrarese viaggia attraverso l’Italia sfregiata con un dress code che ne maschera l’indole ineffabilmente. Se il temperamento di Vittorio è fiammeggiante e generatore, la sua cifra espressiva è perbene, ai limiti dell’antighetti, lavorando di sottrazione, di semplificazione. La mano che cerca delicatamente la chioma immergendosi nel suo soffice miele e lo sguardo che si nasconde pudico dietro il biscotto della montatura lascerebbero immaginare un uomo capace solo di dolcezze. Anche il linguaggio del tronco che dialoga con i capispalla e l’indolente intrecciarsi del velluto dei calzoni di appetitosa grammatura, appena prima degli accessi nevrotici, sono signorilmente décontracté e non rivendicano alcuna drammaticità. L’occhio educato al colore del grande critico d’arte impedisce accostamenti errati e anche la prospettica del mocassino è spesso apprezzabile, ma la sensazione di buon compitino è evidente. Più vicino a Piero della Francesca che a Caravaggio.

 

 

 

 

Un ringraziamento ai cari lettori che hanno avuto la pazienza di arrivare fino in fondo e a presto su queste pagine con i peggio conciati; per i quali il Cristo è risorto invano.

 

 

 

 

 

 

 

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