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Oggi, all’altare di un’antica chiesa di campagna, si è celebrato un rito nuziale. Uno dei tanti di questo maggio assolato. Ho amici squisiti che sono da poco convolati, quindi non mi spenderò in commenti sull’istituzione in sé, benedetta dal Signore e dalle wedding planner. Cionondimeno questi cerimoniali, fra catabasi e anabasi, sono spesso un traumatizzante estratto della precarietà relazionale fra l’umano e il divino. Il più eclatante, perché in violento attrito con l’inviolabilità del sacramento. E quella che segue non è una ricostruzione caricaturale, una parodistica carrellata di convitati, ma un accidentale quanto esatto reportage di gelida cronaca rosa. La prima invitata di cui ho attestazione esce dalla chiesa con una carrozzella tarantolata, che a stento trattiene una creatura strepitante, le cui parole, ne avesse a disposizione, sarebbero madonne. Questa mamma d’assalto veste una minigonna azzimata appena sotto il pube, che lascia ammiccare un «Let’s do it!», sferzante epigramma motivazionale tatuato sull’esterno coscia. La donna si accende una paglia e inizia a digitare con foga sul cellulare cercando di mantenere l’equilibrio su due tacchi da cubista moldava. Poco dopo, alla spicciolata, escono altri testimoni che aprono a sé il tesoro della grazia sacramentale, ove attingere le forze occorrenti ad adempiere le proprie parti ed i propri doveri santamente. Occhiali a specchio di rigore, girasoli all’occhiello, il più attempato sfoggiava dei mocassini bianchi ciabattati da magnaccia paraguaiano, l’altro abbinava a un completo grigio metallizzato dei sandali da trekking (non scherzo). Evito di descrivere le mogli, ma la prima aveva le scarpe in mano mentre il partner le massaggiava un piede di porco. Si accomodano al tavolino del caffè poco distante, dove albergavo in solitudine: «Cameriere… quattro spritz!». Sono i padroni del mondo.

 

«Sì ma cheppalle questo matrimonio…na noia!», è il primo commento che intercetto, in arrembante accento regionale. «Ma chettifrega, tanto qua si stabbene». Esce un nuovo convitato, spaesato, sul piazzale della chiesa. Lo rassicura l’amico: «Ohhhhhhh…Ciccio…siam qua!», appello che mi fa volar via lo zucchero a velo dai cannoncini. Il richiamato arriva con passo bullesco, in jeans, stivalanza Nuovo Messico e mollettone al passante. Prima di accomodarsi, scaracchia a terra, a mezzo metro dagli amici. Il tavolino è sempre più piccolo nel contenere l’afflusso di recenti fuoriusciti e le suonerie dei partecipanti sfidano in decibel le campane della chiesa. Arriva ancora una signora, pescegatta dal baffo arrogante, con un altro passeggino, del Milan. Sulla schiena, nuda, la faccia di un coguaro dai denti a bestemmia, sui polsi, borchie e gioie. La bambina del carrozzino rossonero si sbrodola il gelato sulla canottiera, ma nessuno ci fa caso. Poi, quando se lo stampa sul musino, sollecito timidamente un aiuto. «Ahahahah, va che deficiente, ahahah!», il soccorrevole commento della madre.

 

Finalmente giungono gli sposi, cui viene lanciato di tutto, mi pare anche un infradito. Pervasi dalla grazia santificante, i due fedeli da poco uniti nel sacro vincolo irradiano il potere di un amore soprannaturale, delicato e fecondo: «Non trovi le chiavi della macchina?! Stai scherzando!? Sei il solito coglione!». Risolto il busillis con l’aiuto di Cristo, che il marito chiama più volte in causa, salgono in auto, una decappottabile vecchia, non d’epoca, proprio vecchia, con una traccia di piccione sul cofano, e sgommano verso la felicità. All’inseguimento un’altra vettura, probabilmente del fotografo, che presa dall’entusiasmo della derapata urta una mansueta vecchina del posto, la quale aveva avuto l’incoscienza di attraversare la piazza proprio in quel momento. Urla da funerale siculo-americano con immediato capannello di curiosi; l’anziana si rialza con la faccia di chi è uscito da un coma di tre anni e come prima cosa prende un cazzotto sul naso, ma mostra di essere in salute, ispirando rumorose risate di sollievo. Mentre dai tavolini del caffè, si alza un suggerimento chiamato a far fruttificare i preziosi semi della grazia: «Sali la vecchia che gli diamo uno spritz!».

 

 

 

 

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