ÒDaddy, can I stop being worried now?Ó

Lo stato di guerra in cui viviamo ha due fronti: il primo è contro i musulmani radicalizzati e chi li manovra; il secondo contro gli integralisti dell’accondiscendenza, complici imbelli o subdoli del nemico. Nei riguardi dei primi, ardimentosi nella demenza fanatica o spietati nella brama colonizzatrice, è inevitabile l’esitazione. Verso i secondi no: vanno epurati istantaneamente e definitivamente. Per identificarli, tuttavia, è innanzitutto necessario alzare il velo alle false accezioni. L’accoglienza, che è ormai vocabolo brumoso, non deve essere confusa con l’accondiscendenza, perché in tal caso continueremo a dibatterci nella malta dell’equivoco: la prima è un dovere cristiano, come Gesù insegnò alla donna di Samaria, e costituzionale, sancito dall’articolo 10. Ma per essere esercitata entro i confini di uno Stato-nazione – entità giuridica ancora esistente – non può prescindere dalla responsabilità politica, cioè dalla volontà e dall’abilità di governare le incerte conseguenze di una decisione. L’accondiscendenza è invece una concessione che il vile fa a se stesso prima ancora che all’oppositore. Un «con descendere» verso l’abisso.

 

In questo snodo decisivo, scivoloso e fragile nella semantica eppure solido come la pietra nei fatti del quotidiano, ci viene in soccorso il savio Max Weber, distinguendo provvidenzialmente l’etica dei principi dall’etica della responsabilità.

 

Chi marcia per l’accoglienza – per ora mi riferisco a chi lo fa in buona fede e senza le pose cretinoidi del progressista evoluto – si ferma all’intenzione, al buon proposito della solidarietà verso chi fugge dalla fame e dalla guerra. Non si preoccupa di ciò che accadrà in seguito, se il sistema sanitario sarà in grado di reggere l’onda d’urto di così tanti pazienti bisognosi di cure immediate, di che fine faranno gli accolti una volta in forze, se verranno poi integrati o meno; non riflette sulla demarcazione del diritto di cittadinanza o sul conflitto fra le costumanze dei nuovi arrivati e le leggi dello Stato che li ospita, se l’immigrato troverà normale defecare per strada o combattere il caldo mettendosi in ammollo nella fontana di Piazza della Madonna dei Monti, non si cura del come il trapiantato reagirà all’emarginazione permanente, del modo in cui rielaborerà la rabbia e l’aspirazione frustrata, di generazione in generazione, magari radicalizzandosi; l’uomo di principio si limita a indicare la via, ad accogliere, non necessariamente a casa propria. Ma se il principio dell’accoglienza, quando candido e incorrotto, veste bene con lo zucchetto papale o con la cottina di pizzo dei chierichetti, appena imbrattato dalla vigliaccheria e dall’opportunismo della politica, affiancati dallo strisciare prossenetico dei media, si trasforma appunto in accondiscendenza di regime, ovvero nella pagliacciata perbenista che ci governa; una tragica farsa che sfrutta la disperazione indossando la maschera della solidarietà umanitaria, ideale camuffamento per le peggiori facce di merda. Una tetra carnevalata cognitiva e moralistica che si sforza di adulterare ogni approccio responsabile e serio, contrabbandandolo per grettezza e spilorceria d’animo, mentre alza con ributtante narcisismo il pennacchio di una simulata liberalità.

 

Chi segue l’etica della responsabilità, al contrario, proprio in virtù di una maggior empatia e ampiezza di vedute, si preoccupa delle conseguenze, se ne fa carico in anticipo, osserva gli eventi in prospettiva prima di mettersi in marcia. E quando è il momento, guarda il pericolo negli occhi e si organizza per affrontarlo. Agisce cioè come un politico autentico dovrebbe agire ed è ciò che la politica maggiormente teme e disprezza.

 

Il cittadino responsabile non combatte contro il terrorismo. Non può. Lo subisce inerme come subirebbe una calamità naturale. Il cittadino responsabile non ha i mezzi per estirpare i jihadisti e chi ne sobilla le imprese assassine; ma può affrontare, può sfidare, può prendere per le orecchie chi li tollera, chi ancora si rifiuta di riconoscerli come pericoli, chi ne minimizza l’intimidazione, per stupidità o per interesse spicciolo, come già segnalavamo dopo i fatti di Londra. Riallacciandomi all’attacco, contro i negazionisti non è più giustificata alcuna esitazione, ragionevole alcuno scrupolo, per la nostra stessa sopravvivenza. Vanno isolati, resi democraticamente inoffensivi, irrilevanti, che siano in buona fede oppure impostori. Solo così sarà possibile far affiorare come stronzi sul pelo dell’acqua i misfatti di quegli stessi amministratori occidentali che per squallide ragioni mercantili, direttamente o indirettamente, fiancheggiano i grotteschi sicari impegnati a saltar per aria nelle nostre città; misfatti di trafficanti autorizzati che fra la coglioneria dell’accondiscendenza e la finta bonarietà del mondialismo militante si nascondono come lupi fra le pecore. Emarginare, epurare i primi è l’unico modo per trascinare al patibolo democratico i secondi – nella vana attesa che il più alto tribunale delle Nazioni Unite (ICC) possa in futuro amministrare un diritto internazionale di universale applicazione – se ancora siamo disposti a riconoscere la fondatezza, sul piano della legittimità e della funzionalità, di una qualche forma di democrazia rappresentativa.

 

Dopo la strage di Manchester, l’ennesima e forse la più sconvolgente per i connotati delle vittime, siamo ancora costretti ad ascoltare esponenti della politica, come Pier Ferdinando Casini pochi giorni fa su La7, mentre sminestrano la trita fallacia:

«Non possiamo trasformare radicalmente le nostre società dandola vinta ai terroristi. E’ quello che vogliono. Non dobbiamo sacrificare la nostra modalità di vita, noi non vogliamo diventare la Corea del Nord. (…) Non possiamo trasformare la nostra società in una società in cui non facciamo più nulla perché nessuna cosa ci è… è più possibile… in qualche modo… da vivere normalmente».

 

In logica questo si chiama argomento fantoccio. Far passare l’idea che ogni reazione mirata nei confronti di un’aggressione brutale si traduca in un attacco ai diritti umani e ai valori democratici. Che porti alla repressione statale delle libertà civili. Falso. Identificare e radiare prudenzialmente chi scarica manuali jihadisti da Internet (pare che nel solo Regno Unito siano circa 50mila gli islamici a farlo), chi si lascia inspirare da Inspire magazine, chi attizza il fanatismo, nelle galere come nelle moschee, per le strade delle periferie come sul web… non rappresenta una violazione dei diritti umani, un attacco alla democrazia; non ci costringerà a vivere come in Corea del Nord. Incassare l’atrocità con pavido fatalismo, oppure invitare strumentalmente i cittadini a proseguire la propria routine di vita come espressione di una saggezza superiore, queste sì sono minacce per i diritti umani. Perché trucidare ragazzine è la più terribile fra le possibili violazioni di quei diritti che abbiamo paura di violare per proteggerci.

 

 

Stanno macellando i nostri ragazzi. E’ già accaduto. Accade. Accadrà ancora. Ne avevo già scritto e ne scrivo di nuovo. E’ evidente che non c’è l’interesse a fermare questo orrore, il che fa ancor più orrore. E mentre tutto ciò si verifica noi ci preoccupiamo con fessa pedanteria di quello che potrebbe accadere alle libertà di quegli stessi ragazzi se decidessimo di difenderli. La vigliaccheria, la remissività, l’ostentazione di una moralità tarocca che vive di autoinganno, la cavillosità cretina intrecciata a una tolleranza fraudolenta che specula sulla disgrazia, queste sono le prime minacce ai valori democratici che ci definiscono, indispensabili a chi si serve dei terroristi, perché rappresentano il deretano molle della nostra coscienza collettiva; orifizio dal quale l’estremismo continua a penetrare in scioltezza, stuprando con l’orrore una civiltà che si crede emancipata e aperta perché orgogliosa di mostrarsi a brache calate.

 

 

 

 

 

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