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Scrivere criticamente della libera espressione della donna, del suo rapporto con il corpo, di sessismo e discriminazione, è come bonificare ordigni esplosivi improvvisati. Ogni commento può essere l’ultimo. Ma noi siamo artificieri in punta di penna e quindi anche in questo caso avanzeremo sprezzanti del cimento, sfidando gli argomenti ad populum come quelli ad baculum, sperando di non finire mazziati. Semplificando una nutritissima letteratura in materia, è facile distillare questo ponderato precetto: «Una femmina può vestirsi e atteggiarsi come vuole senza per questo dover essere giudicata una poco di buono. Chi così la valuta per ragioni superficiali è un sessista che giustifica la violenza o un’arpia invidiosa complice del maschio usurpatore».

 

 

Ora, chiunque abbia navigato per la vita almeno a lume di naso, se proprio non a lume di pisello, sa che in effetti non si riscontra un nesso preciso fra esibizionismo e disponibilità sessuale. Tuttavia, difendendo il vero della petizione sfugge la doppiezza che vi si cela in filigrana. Una donna che si sforza di mostrare il più vividamente possibile le sue forme, provocatoriamente, che lo sappia o meno, lo fa per piacere all’uomo. Anche colei che obietta «…ma neanche per idea mio caro! La natica estroversa e la tetta che guarda il mondo di sguincio piacciono a me, mi fanno sentire più femmina!» non comprende che quel sentimento di gratificazione, apparentemente autosufficiente, rampolla in virtù dell’apprezzamento, dal desiderio e dall’invidia che può generare. E sempre con l’uomo come feticcio, perché è una vanità che nasce dal riflesso dello sguardo maschile, o da un altro sguardo femminile in competizione per quello maschile. Quindi una femminista autentica non dovrebbe difendere il diritto della donna a mostrarsi senza essere automaticamente bollata come dissoluta, o preservare il gusto di giocare con il desiderio che si ispira e magari abusarne senza per questo essere considerata un po’ troia; al contrario, dovrebbe coltivare il piacere di non farlo senza sentirsi meno donna, proprio contro l’immaginario fallocentrico e arcizitello. Mentre l’uomo in trincea a difendere il diritto della donna di spogliarsi è in realtà un tristo paraculo che molto gradisce le rizzacazzi e vorrebbe continuare a goderne in santa pace.

 

 

Ovviamente è impossibile affrontare queste tematiche nel corso di una serena discussione vis-à-vis con una ragazza, poiché ogni scetticismo riflessivo si trova di fronte la negazione dell’ignoranza invincibile, con l’interlocutore che nega ostinatamente ogni possibile obiezione: «Io mi faccio carina o vesto sexy per me e stop! Tu che vuoi saperne?». Interlocutore che, al contempo, si troverebbe immantinente d’accordo nel definire «grandissime zoccole» tutte le altre ragazze che esibiscono abiti e pose provocanti in presenza del proprio compagno. Lo scriverne, di conseguenza, si rivela inevitabilmente scacciafiga, quindi mi auguro onorerete almeno le future astinenze di un martire della verità come il sottoscritto, che forse un giorno indosserà il saio.

 

 

 

La più mesta conferma a questo ruolo eroticamente ancillare, che viene fatto brillare proprio quando disinnescato, si manifesta nel rapporto con la bilancia. La cosiddetta rivoluzione curvy è quella recente (recente almeno per chi non ha mai visto le Tre Grazie di Rubens…) interpretazione dei chili in più come moltiplicatore dell’erotismo, non più da celare con complesso, ma da ostentare con orgoglio. Molte maîtresse à penser ne hanno fatto un vessillo di civiltà, perché accettarsi anche con le più esuberanti rotondità sarebbe lasciapassare privilegiato per una compiuta indipendenza di pensiero e per la conquista della serenità. Legittimo. Ma non valido e neppure vero.

 

Ogniqualvolta si insiste socialmente su di un difetto per sdoganarlo, c’è una spia che si accende sotto gli occhi degli osservatori intellettualmente onesti: il difetto è infatti sempre inserito nel canone. E’ come una deviazione che corre parallela alla strada maestra invece di portare verso nuovi itinerari di consapevolezza. Quindi è un cripto-conformismo, un paternalismo del giudizio, un’allucinazione sovversiva che serve a illudere di aver cambiato le regole di ingaggio mentre in realtà è stato riaffermato lo status quo. Per cui va bene in carne, purché avvenente, purché tettona. Va bene opulenta, ma pur sempre arrapante, mi raccomando. Grassa e cessa? Adesso non esageriamo. Villosa, per esempio? Ci si può accettare anche così? Ma non diciamo assurdità! Che obbrobrio! Fatti un laser orangutan! Tolleriamo di buon grado addirittura l’esotica vitiligine, perché bisogna sapersi accettare anche nelle più visibili imperfezioni, ma la accettiamo sul corpo di Winnie Harlow. Queste finte nuove tolleranze non fanno che riconfermare il criterio esteriore come l’unico valido, e liberalizzandone fintamente alcuni codici con un’ipocrisia tanto più insopportabile quanto più contraffatta in una falsificata ampiezza di vedute, non fanno che ribadirne il dominio.

 

 

Quando si leggono articoli di opinioniste «dalla parte delle donne» che invitano le lettrici a fregarsene del chili di troppo, non si intercettano parole di riscatto di fronte al totalitarismo della bellezza esteriore, non si intravede una suggestione che interpreti quell’appetito del corpo come uno specchio dell’appetito dell’anima, magari di amore, di cultura, di spirito, non si cita Guy de Maupassant – «Solo gli imbecilli non sono ghiotti. Si è ghiotti come poeti, si è ghiotti come artisti». All’opposto si rivendica proprio un’accresciuta seduttività sessuale, facendo tintinnare ancor di più le catene: «Così rotonde sarete più stuzzicanti! Non vorrete essere dei manici di scopa?! Non avete ancora capito?! Gli uomini non amano le donne troppo magre!».

 

Ecco di nuovo che l’emancipazione femminile passa attraverso l’immaginario maschile, o quello che si immagina l’immaginario maschile sia, e quindi si rivela incompiuta. Nel motivare ulteriormente le donne ad accettarsi anche in carne, sul web gira un’immagine di Ryan Gosling con un divertito virgolettato che recita: «Hey girl, go ahed and eat that cake! I like my woman curvy and plump, not skinny and flat». Dietro la burletta, in controluce come il demonio, c’è il precetto del pensiero unico: non sappiamo bene come interpretare il nostro essere donne, ma l’unico modo in cui vogliamo vedere noi stesse è attraverso gli occhi di uno strafigo, che ci accetti come siamo. Girl power!

 

Anche noi ci giriamo per un bel culo. E non vorremmo apparire omofobi confessando che, nella maggior parte dei casi, è per un culo femminile. Eppure la verità, ben conosciuta da chi esiste nel culto della donna, venerandone la soprannaturale eredità di virgo-mater, è che la bellezza femminile autentica – quella piena di grazia, che non invecchia, non ingrassa, non rischia di emaciarsi, che si coltiva e non si allena, si custodisce e non si esibisce, che non è intercambiabile perché va oltre la mera somma delle caratteristiche – arriva ai sensi passando dal cuore e non viceversa.

 

 

 

 

 

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