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Fra pochi giorni uscirà nelle sale cinematografiche italiane Blade Runner 2049, seguito del future noir di Ridley Scott, girato da un altro fuoriclasse come Denis Villeneuve. E proprio dall’osservatorio di un classico della science fiction ci accorgiamo che il futuro non è più quello di una volta, e soprattutto… il presente non è il futuro che molti immaginavano. Nel 1927 Fritz Lang prefigurava nella sua Metropolis qualcosa che andava ben oltre la Trump Tower, mentre proprio di questi tempi dovremmo visualizzare il professor Rotwang impegnato a realizzare la sua antropica Maria-robot. Nel 1948 Arthur C. Clarke scommetteva che nel 1996 l’umanità avrebbe colonizzato la luna. Stanley Kubrick ne trasse ispirazione vent’anni dopo, raccontando che nel 2001 saremmo stati in viaggio verso Giove con Hal9000. John Carpenter nel 1981 fu aruspice più avvertito, immaginando che nel 1997 dei terroristi avrebbero potuto covar l’uzzolo di schiantarsi contro grattacieli, ma anche sforzandosi di abbozzare un domani distopico-regressivo si dimostrò troppo avanti nell’ipotizzare microbombe da iniettare sottopelle.

 

 

 

Ma torniamo a Blade Runner: era il 1982 quando Ridley Scott, su profezia di P. Dick, ci fece commuovere con le lacrime di un replicante proveniente da una colonia extramondo – «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…» – dove navi da combattimento andavano in fiamme al largo dei bastioni di Orione e i raggi B balenavano nel buio vicino alle porte di Tannhäuser; intanto, sulla terra, pirotecniche navicelle spaziali pirlavano fra i palazzi cittadini come utilitarie; ebbene, il tutto si vaticinava potesse verificarsi fra meno di due anni. Dal 1989 Marty McFly arriva negli Stati Uniti del 2015, e invece di trovare un presidente nero e la Fiat Chrysler, si imbatte anch’egli in un caotico traffico di veicoli volanti, skateboard compresi. Nel frattempo, durante gli Strange Days del dicembre 1999, Lenny Nero-Ralph Fiennes, grazie alla sceneggiatura di James Cameron, spacciava qualcosa di veramente stupefacente – sogno ultimo del marketing esperienziale – che Steve Jobs al confronto verrebbe retrocesso da genio visionario a campioncino di Tamagotchi. Senza contare che stando a Terminator, fra pochi anni dovremmo mandare dei cyborg indietro nel tempo, in erasmus all’epoca dei paninari, extratosti o scarsi ginoni. Campioni casuali che si disinteressano di tutta quella letteratura, anche a disegni, certa dell’avvento di un’era post-apocalittica, dove il mondo intero sarebbe stato sconvolto dalle esplosioni atomiche… come in Hokuto no Ken, nel Grande C o in Akira, di Katsuhiro Ōtomo. Quest’ultimo, ambientato nel 2019, se si mostrava catastrofista sul futuro del genere umano, era straordinariamente fiducioso sull’evolversi delle nostre capacità ingegneristiche e soprattutto di quelle psichico-telecinetiche. Sognavamo troppo in grande, anche nei cataclismi.

 

 

 

L’urbanistica immaginava scenari che volavano più in alto, per quanto sembri impossibile, persino della Nuvola di Fuksas: la città volante di Fuller, le città trasportabili, quelle sottomarine, quelle in grado di muoversi autonomamente attraverso l’utilizzo di zampe telescopiche. La mia compagna, in particolare, si lamenta del mancato avvento della lavastoviglie a ultrasuoni e del lavaggio automatico dei pavimenti promessi dalla General Motors nel 1956. E invece, facendo un selfie con il reale, di autenticamente avveniristico possiamo vantare: gli scafisti; il vaccino contro la malaria; la depilazione al laser; il transgenderismo; l’utero in affitto; gli eco-chef, i personal-brander e la stepchild adoption; il Milan di Lǐ Yǒnghóng e l’Inter di Zhang Jindong; macchinine radiocomandate e telefonini senza filo; Facebook, Instagram e grandinate di pornografia gratis. 
Di fatto, solo quest’ultima circostanza era davvero fantascienza.

 

A ben valutare, il profeta con la visione più nitida dell’avvenire è stato il tutt’altro che futuristico George A. Romero, geniale regista newyorkese scomparso pochi mesi fa. Il suo Zombie del 1978 somiglia così grottescamente al nostro presente da far gelare il sangue ben più di allora. Con i terrorizzati quanto confusi protagonisti asserragliati dentro un enorme centro commerciale, e una massa sconfinata di famelici morti viventi che lo circondano e lentamente, ma implacabilmente, vi penetrano. Certo non c’era nessuno che li invitava a entrare, ma che volete, è solo un film…

 

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«Rivendichiamo il futuro contro la paura», aveva dichiarato Matteo Renzi pochi mesi fa al Lingotto. Il futuro contro la paura. Che formidabile epigramma! Che aforisma invincibile! Ma se fosse proprio il futuro a far paura? Futile interrogativo anche per Lotti, che inaugurando un palazzetto ad Amatrice ha così tuonato verso il popolo dei terremotati: «Dobbiamo credere nel futuro! Crederci tutti insieme, come un grande team!». Che straordinario semiologo, Lotti! Capace di compartecipare alle unità significanti! Terremotati, palazzetto, futuro, team. Il suo maestro, dopotutto, è per l’appunto Renzi, il «grande comunicatore». Petizione di principio – o cacata neodadaista – ripetuta in continuazione da grandi comunicatori come lui. Sì, in effetti lo è: perché ha messo in comunicazione la grossolanità con la smania, la cialtroneria con l’alacrità, la lentezza delle idee con la velocità della lingua, l’opportunismo con l’opportunità, il peggio della destra con il peggio della sinistra. Un domani, per esorcizzare la paura penseremo a lui e ci diremo: forse il peggio è passato. Personalmente, tuttavia, temo che il Bomba sia stata la flatulenza premonitrice del mare di merda che sta per arrivare.

 

«Ho una tale sfiducia nel futuro che faccio i miei progetti per il passato, scrisse Ennio Flaiano. Anch’io sono piuttosto sfiducioso, tanto da aver già vergato il mio epitaffio. Credo che il futuro, in un modo o nell’altro, alla fine mi ucciderà.

 

 

 

 

 

 

 

 

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