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Ho aspettato prima di esprimermi sulla vicenda Weinstein perché, come spesso accade, le reazioni e i commenti sono più significativi del fatto in sé. Non mi riferisco alla manifesta ciarlataneria dei liberal alla Meryl Streep – che è passata dal ribattezzare il suo amico produttore “Dio”, al chiamarlo “porco”, suggerendo come ogni sua ramanzina pubblica vada da ora in avanti considerata una bestemmia; piuttosto alla intrugliata questione femminile. Un caso molto complicato. Un sacco di input e output, nelle parole di un gigante del pensiero occidentale come Jeffrey Lebowski. Dichiarata aspirazione di questo piccolo spazio è provare a far emergere la verità dalla melassa delle false opinioni, dall’adesione inerziale al non pensiero, ed è ciò che cercheremo di fare anche stavolta. Fortunatamente io rispetto un regime di droghe piuttosto rigido per mantenere la mente flessibile e sono molto, molto vicino, vacca troia, a una deliberazione. Anche perché lo sputtanamento del viscido newyorkese ha avuto il provvidenziale effetto di far cozzare fra loro le due tesi più à la page, lasciando emergere dialetticamente e attraverso le scintille delle coglionate la fiammeggiante lama dell’idea santa. Che spero di poter condividere con voi. Semplifico, ma neppure poi tanto, le due posizioni in conflitto:

  1. La donna molestata è una vittima anche se acconsente, anche quando cede al molestatore, perché vive in un costante stato di subordinazione nei confronti del maschio pisellatore, sul luogo di lavoro come per la strada, oltraggiata da una società sessista che la vede ancora come vittima sacrificale. Le donne che puntano il dito verso le vittime, invece di solidarizzare, dovrebbero vergognarsi.
  2. E’ un insulto per la dignità della donna chiamare vittima chi concede masticazzi per far carriera o per semplice vigliaccheria. Una vera donna deve avere la forza di dire di no se ne ha la possibilità e non può scendere a compromessi. Mostrarsi condiscendenti verso chi si mette a 90 è una mancanza di rispetto verso chi ha invece avuto il coraggio di opporsi, anche a costo di vedere vanificate le proprie ambizioni di carriera.

 

Sono giorni che leggo autori e autrici fronteggiarsi brandendo queste due diverse idee. Personalmente, ritengo siano entrambe fallaci e fesse… perché partono dal prerequisito, pestilenzialmente ideologico, che la donna debba aspirare ad essere uguale all’uomo. Dal primo osservatorio ci si lamenta perché quest’uguaglianza non si sarebbe ancora realizzata; dall’altro invece, fieri di averla raggiunta, si vorrebbe che la donna facesse finalmente l’uomo. «Se fossi stata forte gli avrei dato un calcio nelle palle e sarei scappata», ha confessato Asia Argento ripensando alle grifagne avances di Weinstein. Rimpianto emblematico.

 

 

 

L’impalcatura femminista si fonda dunque sulla parità di genere, sull’uguaglianza formale e sostanziale fra i sessi. Un anelito alla parità così profondamente trasfuso fin dalla più tenera età da farne quasi una forma a priori della sensibilità, come spazio e tempo. Cioè qualcosa capace di dar forma alla materia dell’esperienza. E questa forma è il patetico calco del maschio. Per cui la più grande conquista della donna sembra essere quella di poter esercitare la propria libera sessualità proprio come farebbe il pene con attaccato un uomo. Di predare come lui. Di osare, di provocare, di arraffare, di negarsi, di stancarsi, di scaracchiare per terra e fumare una brasa dopo l’amplesso. Non dovrebbero servire studi teleologici per comprendere che il traguardo latente di questa azione è comunque l’uomo. Che lo si voglia sedurre, punire, imitare, superare… non conta: l’azione tende ineluttabilmente a lui. Come avevo già avuto modo di segnalare ne Il maschilismo femminile: «Una femminista autentica non dovrebbe difendere il diritto della donna a mostrarsi mezza nuda senza essere automaticamente bollata come dissoluta, o preservare il gusto di giocare con il desiderio che si ispira e magari abusarne senza per questo essere considerata un po’ troia; al contrario, dovrebbe coltivare il piacere di non farlo senza sentirsi meno donna, proprio contro l’immaginario fallocentrico…». Ma ora possiamo avanzare nell’indagine.

 

 

La donna ha deciso di scendere nel limo dell’arena con i maschi, ha scelto deliberatamente di rinunciare alle sue ali, di precipitare al nostro livello. E ora comincia a percepirne le conseguenze. «Il corpo è mio e ci faccio quello che voglio io», assevera, tuona il mantra dell’emancipazione femminista. Senza capire che in quella reificazione c’è la mortificazione del femminile. Il corpo diventa una cosa che si usa a piacere, un trastullo. Ma se tu stessa, femmina, lo usi, qualcun altro potrà volerlo usare. E qualcun altro ancora cercherà magari di abusarne. Questa puerile litania del «ci faccio quel che voglio io» è la cieca superbia del bruco che si attacca fieramente alla sua pianta ospite senza manifestare la minima intenzione di diventare farfalla. O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stesse? No, non lo sanno più. Sanno che il corpo è loro e ci fanno quello che vogliono loro. Miserrima libertà. Una condizione, quella femminile, che paga fatalmente il prezzo di averne voluto uno. E’ sacro solo ciò che non è in vendita e oggi la donna è sul mercato. Tutto di lei lo è. Finanche le sue aspirazioni. Così all’orco facoltoso e potente basta mettersi in accappatoio e aspettare: se non è una, sarà l’altra. Se non è più Weinstein, sarà un altro. Come odio l’inconscio genio del nostro sesso che le ha liberate dalla schiavitù domestica solo per farne ignare serve in un nuovo tinello!

 

 

Un tempo le donne non votavano. Non avevano una carriera. Spesso vivevamo una condizione di asservimento famigliare. Ci sono luoghi del mondo, le cui culture sono in genere magnificate proprio dai campioncini del progressismo, in cui una first lady può essere considerata come «parte integrante della cucina, del salotto e di altre stanze». La donna subisce ancora indicibili ingiustizie in gran parte delle terre emerse. E dove invece può lottare per autodeterminarsi, sceglie noi come modello. Oggi, libera dal tombolo, vuole far carriera, competere, «performare», ridursi a merce, come noi; si danna per andare in palestra, per mantenersi giovane, per competere con le più giovani, sul lavoro, nella seduzione e sul tapis roulant. Le sue rivendicazioni sono indirizzate a ottenere una paga uguale alla nostra; a conquistare le nostre stesse opportunità. Il nostro status. Non l’opportunità di emanciparsi dal profano mercimonio, no; ma il privilegio di scimmiottarci affondando ancor di più nella cattività. Quando incrocio quelle donne che se non fai come dicono ti invitano a dar via il culo, perché non le mandano a dire… che non hanno tempo, perché il loro tempo è denaro, non vedo il glorioso compimento di un riscatto di genere; ma la degradazione, la completa metamorfosi di angelo in bestia. La bestia endemica della giungla mercantile.

 

 

Si obietterà che ai tempi dei nostri nonni, le donne spesso venivano zittite, se non del tutto ignorate, in contesti politici e culturali. Oggi la donna è poeta, è designer, è cancelliere. Ma è più donna? Nell’affettazione del gentiluomo verso la signora, in quella galanteria cerimoniosa, che oggi è scomparsa per lasciare spazio al demenziale livellamento boldriniano, c’era l’implicita coscienza della differenza ontologica fra i sessi. Subalterna eppur signora. Ora distinguere è visto con sospetto. Fra razze, fra sessi, fra opinioni. Tutto è un intermedio equivoco. Sullo stesso piano e rasoterra. L’uomo è sempre più svirilizzato, farsescamente narciso, glabro di tempra, lesso; mentre la dama è sempre più con le palle. E su donna con le palle, ammoniva Jep Gambardella, crollerebbe qualsiasi gentiluomo. Ma così ferocemente disavvezzati a distinguere, a discernere, a discriminare… come osservammo in un recente post, così tragicamente contingentati al mero prezzo, sapremo riconoscere ciò che ha valore? Il sessismo di ieri era l’acquisita consapevolezza che l’uomo rappresentava un mezzo, la donna un fine. Quando penso a lei, io penso alla madre. Alla generatrice di vita e di senso. Non alla femmina che aizza il desiderio. Perché questa incarna uno scopo, quella un senso; questa il piacevole, quella il sublime. La donna, la madre, ispira un’attrazione senza scopo, eppure pregna di senso. Oggi la femmina ha soggiogato la donna, il corpo l’anima; la femmina che è bestia come il maschio e che si è chiusa nella sua stessa gabbia. Ambire alla maternità come vocazione centrale del proprio esistere è percepito come aspirazione da orsolina, e quando lo si diventa, ci si strugge perché manca il tempo per sé. La femmina ora è libera di esistere al nostro livello, di condividere le nostre prigioni con il moltiplicatore delle proprie e di sentirsi in questo molto realizzata. E’ libera di soggiacere allo stesso tritacarne del lavoro precario e sottopagato, di sgomitare, imprecare e bestemmiare, di vendersi al nostro stesso modo, parlando di soldi, di carriera, di business. Di spendersi per avanzare sullo scaffale della merce in esposizione. Come le attrici. Le manager. O le segretarie. Ed è libera anche di criticare chi lo fa e poi se ne pente, perché non è abbastanza uomo per sottrarvisi o per andare fino in fondo senza rimpianti.

 

 

Nella mia modesta opinione, in conclusione, l’unica chance che ha oggi la donna per affrancarsi davvero dalla temperie dell’indistinto è riconquistare per sé la propria esistenza, il proprio alato enigma. A mia figlia direi che l’emancipazione femminile non è poggiare i piedi sulla stessa ammorbante terra dell’uomo, bensì maturare la consapevolezza del proprio profondo radicamento nel cielo. Le ricorderei che il carrierismo e il sudiciume non sono cose da signore; che moderare consigli di amministrazione non è cool, non è liberatorio… rattrista solo l’immaginazione. Le suggerirei di sbattere le ali ogniqualvolta il maschio cercasse di fare di lei una cosa del suo mondo. C’è una frase leggera eppure acuta attribuita a Grace Kelly: «L’emancipazione ha fatto perdere alle donne il loro mistero». Ma le parole definitive sono del sommo de Maistre, in una lettera alla figlia Costanza: «En un mot, la donna non può essere superiore che come donna, ma dal momento in cui vuole emulare l’uomo, non è che una scimmia».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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