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Le vacanze di Natale si avvicinano ed io, come ogni anno, attendo quel momento per poter leggere in pace santissima; per sfogliare lentamente la natività dell’anima. Quando mi abbandonerò sul tappeto cingendo il libro prescelto fra le mani come un bambino Gesù in fasce. Eppure ora mi domando, perché aspettare il camino acceso, il plaid in alpaca, l’asino e il bue? Lo sciabordio di un’onda lontana, la risacca di un «Ultimo mare» trascinano lo spirito verso i versi di Nichi Vendola: «Il foglio magro nel pallore d’aprile… Il pugno di corallo e di rabbia… Corpo o latte… Ossario d’utopia… Stranezza, straniante, stranita… Culla di un dio distratto… Luglio scartavetro… L’alba di poi/ disattesa… Ai giorni non dire/ l’attesa/ ché pesa… Stretti dai letti disfatto… I cani bianchi… Una carne dorata di larve… Un nume velato… A morsi di pane e di pesca». Ma forse è la saggistica più avvertita che dovremmo scegliere per afferrare i grandi rivolgimenti del passato e prepararci all’Avvento, come la Rivoluzione Russa, che tanto sta a cuore a tutti noi. Con «L’anno del ferro e del fuoco», Ezio Mauro fucina un viaggio di riscoperta, oggi, a un secolo esatto da quegli eventi, più che mai necessario.

 

 

Spesso si accusano i giovani di ignorare la storia. Di non conoscere gli snodi fondamentali delle umane vicende; quei raccordi epocali in cui l’azione concertata di grandi personalità ha saputo vincere i capricci della tyche per farsi destino comune, epopea. «Pd davvero» di Piero Fassino racconta proprio una di queste gloriose stagioni, la più recente, ripercorrendo dieci anni di Partito Democratico. Ma per le alienazioni dell’uomo contemporaneo è forse «Un marziano a Roma» di Ignazio Marino la lettura più acconcia, benché atterrata lo scorso anno; libro-confessione capace di ridisegnare i parametri orbitali di un giramento de cojoni perpetuo. «Disadorna e altre storie», firmato Dario Franceschini, testimonia di come la Cultura italiana sia in maturo regime di autogestione, perché il suo primo ministro può permettersi, pur nel vivo del mandato, di cullarsi in atmosfere rarefatte e surreali. Seguendo quel tocco lieve e ironico che contraddistingue il realismo magico tutto padano di Franceschini, incontriamo uomini storditi di fronte alla vastità del mare, ci perdiamo nella nebbia che avvolge la pianura, scoviamo ricordi, amori e umori lontani. Un’indolenza esistenziale fascinatrice e carica di auspici, come non avvertivamo dal «Grande libro delle amache» di Michele Serra. Recentemente ho ricevuto oltre 26mila mail che mi imploravano di mandare alle stampe un romanzo, o almeno una raccolta di questi quaderni. Ma come posso osare tanto quando ho ancora 52 Amache da degustare? Come potrei fare le due di notte pasticciando o rimasticando inutili pensierini quando ancora devo fare «Le tre del mattino» con Gianrico Carofiglio? Dopotutto, un altro Halloween è appena trascorso senza che mi sia deciso a completare «Il giorno delle zucche» di Fabio Fazio e questa fannullaggine dice molto sul vostro blogger preferito. Scrivere un romanzo?! Non ne sarei capace. Forse perché non mi rassegnerei mai a vergare una frase come: «Ella staccò la fronte dal vetro della finestra e venne verso il centro della stanza». Purtroppo la prosa esige anche passaggi banali: nemmeno Camilleri può esimersene ed io non li reggo. Attraversare finanche una sola riga di raccordo mi pare un Camel Trophy diegetico, mentre ci sono colleghi infinitamente più impegnati di me, come Giovanni Floris, capaci di pubblicare in scioltezza due imprese romanzesche in un solo anno. Ma anche passando dalla finzione ai manifesti programmatici, troviamo intellettuali del calibro di Enrico Letta che, a differenza nostra, sono in grado di guardare «Avanti. Perché l’Italia non si ferma mai». Teoreti che come «Andare insieme, andare lontano».

 

 

La mia fidanzata ha cercato di pungolare la mia operatività e inturgidire il mio orgoglio intellettuale facendomi confrontare con sfidanti antinomie. Pochi giorni fa si è presentata al guanciale domandandomi se preferissi un volgare masticazzo o una copia autografata di «Quando». Mai risposta fu più ardua da porgere, ma io sono «Contro gli immediati», come Francesco Rutelli. Un pompino è semplificatore, compulsivo, come un tweet. Regala un piacere istantaneo, ma effimero; produce una scarica di dopamina, ma non genera gratificazioni durature. Così ho scelto la storia di una vita rammendata, un romanzo di politica e d’amore, scritto con leggerezza e passione da Walter Veltroni. Prima di ieri conoscevo solo il Veltroni regista, il sensibile documentarista de «I bambini sanno», de «Gli occhi cambiano». «Indizi di felicità» che mi avevano quasi convinto ad abbandonare del tutto la narrativa, per la potenza delicata e la delicatezza tonitruante di un cinema verità che sa ancora sognare, far sognare. Tuttavia, credo che la lettura di «Quando» possa essere come un risveglio da quel sonno della speranza in cui ero precipitato dopo aver compreso il mefistofelico populismo del reale, grazie a «Le linee rosse» delle bretelle di Federico Rampini. Il diritto alla cittadinanza un giorno passerà dal dovere di comprendere questi fondamentali. Ma ora sono sveglio e di nuovo mi domando: come si può scrivere se c’è così tanto da leggere ancora? Quando tutto ciò che ci serve per capire è già stato capito da altri per noi, messo a nostra disposizione, con tutto il furore di una verità negata? E leggendo insieme a voi, da voi mi congedo… con l’epifania più modesta di un autore meno considerevole dei sopra citati, ma degno comunque di qualche attenzione natalizia: John Steinbeck.

 

«Un tempo la California apparteneva al Messico e la sua terra ai messicani; ma un’orda di americani laceri e famelici la invase. Ed era tale la loro fame di terra, che s’impadronirono della terra: rubarono quella di Sutter, rubarono quella di Guerrero, arraffarono le concessioni e le smembrarono, e se le contesero con le unghie e con i denti, quegli uomini scatenati e avidi; e la terra che avevano rubato la sorvegliavano con i fucili in mano. Costruirono case e fienili, ararono i campi e li seminarono. E l’uso era possesso, e il possesso era proprietà. I messicani erano deboli e sazi. Erano incapaci di reagire, perché non volevano niente al mondo con la stessa ferocia con cui gli americani volevano la terra. Poi, con l’andar del tempo, gli occupanti smisero d’essere occupanti e furono proprietari; e i loro figli crebbero ed ebbero figli su quella terra. E la fame li aveva lasciati, la fame ferina, la fame straziante e assillante di terra e acqua, di campi e cielo vasto sopra ogni cosa, di germogli floridi e radici gonfie. Tutto ciò era così pienamente loro, che non ci facevano più caso. Non erano più attanagliati dalla brama di un bell’acro di terra fertile e di una lama scintillante con cui ararlo, di semenza da piantare e di un mulino a vento che ruotasse le sue pale nell’aria. Avevano smesso di svegliarsi nelle tenebre, ascoltando i primi cinguettii degli uccellini assonnati, e la brezza del nuovo giorno intorno alla casa mentre aspettavano le prime luci per raggiungere gli amati campi. Tutto questo non c’era più, e adesso i raccolti si traducevano in dollari, e la terra era capitale da interessi, e i raccolti venivano comprati e venduti ancor prima di essere seminati. Perciò per loro un cattivo raccolto, una siccità o un’inondazione, non erano più piccole morti durante la vita, ma semplici perdite di danaro. E tutto il loro amore si inaridì in danaro, e tutta la loro tenacia si dissanguò in interessi, finché smisero del tutto di essere agricoltori e diventarono meri commercianti di raccolti, piccoli industriali con l’ansia di vendere prima di produrre. Non c’era né amore per la terra né sapienza nel coltivare che potesse far sopravvivere un agricoltore se non era anche un bravo commerciante. E con l’andar del tempo le fattorie finirono in mano agli uomini d’affari, e le fattorie aumentarono di dimensioni ma diminuirono di numero. L’agricoltura diventò un’industria, e i proprietari emularono l’antica Roma, pur senza saperlo. Importarono schiavi, anche se non li chiamavano così: cinesi, giapponesi, messicani, filippini. Vivono di riso e fagioli, dicevano gli uomini d’affari. Gli basta poco. Non saprebbero che farsene di paghe alte. Dico, non lo vedi come vivono? Dico, non lo vedi come mangiano? E se alzano la cresta… uno piglia e li deporta. […] Ma nuove ondate erano in viaggio, ormai; nuove ondate di espropriati e senzatetto, incattiviti, risoluti e pericolosi. E mentre i californiani volevano molte cose – prosperità, successo sociale, divertimento, lusso e un’astrusa stabilità bancaria – i nuovi barbari ne volevano solo due: terra e cibo…».

 

 

 

 

 

 

 

 

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