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Un semplice racconto di Natale.

Giocherellava con la fibbia della cintura, poi con una candela; si passava i capelli fra i polpastrelli per palparne la consistenza. Tutto gli appariva più attraente del riaprire quel volume di diritto tributario. Lo striscione del traguardo si avvicinava; aveva quasi completato il suo percorso universitario, ma l’approssimarsi della fine, invece di mettergli il sale sotto la coda, rendeva ancor più nauseabondo ciò che leggeva. Sembrava un marmocchio a cui la mamma cerca invano di propinare un’ultima cucchiaiata di minestrone. Testé era passato al tappo di un vasetto di marmellata. Mentre vi soffiava dentro nell’auspicio di emettere qualche sibilo musicale, guardava fuori dalla finestra. La sua naturale agilità di spirito era stata trascinata in una melma di codici talmente profonda da svigorirne gli slanci, ma l’aria friccicarella dell’inverno ne aveva ridestato il brio. Le lanterne imbellettavano l’aria, le case di rosa antico e il vento molestava gli alberi impedendo loro di riposare. Erano le quattro del mattino.

 

 

Piergiorgio P. si affacciò. «Nevicherà?», si domandò. Il tappo odorava ancora di confettura ai mirtilli. Fece un respiro solenne mentre in quella maschia solitudine contemplava un’idea luminosa: sfidarsi a far canestro nel cesto della spazzatura che costeggiava il palazzo. Erano solo tre piani e l’angolazione favorevole: lanciando il tappo come un frisbee poteva farcela. Mentre calibrava il tiro strofinando nei sensori del dischetto volante la giusta rotazione, sentì un rumore in lontananza. La notte era silenziosa, fino a poco fa nessun suono a parte il vento. Ma lo scalpiccìo, che sul momento non riconobbe, da liminale si faceva più certo e incalzante, come trottante. Si sporse con aria scrutatrice, non vide nulla mentre quel forte stridore si interruppe.

 

 

Tornò a contemplare il suo bersaglio con la scienza di un discobolo negli occhi. Una frustata del polso fece roteare il tappo che partì per la tangente. Ancora quel rumore. Pietrischi che capitolano? Una grondaia che stramazza? Ma quel tambureggiare era in movimento, al ritmo di sonorità fratturate. Si affacciò di nuovo. La via sembrava deserta. A sinistra. Ma da destra? Che arrivasse da destra?! Da quella finestra non poteva dirlo, l’angolo era cieco. Si precipitò in camera da letto, facendosi largo fra le tende con l’accesso di un rettile che cambia pelle. Spalancò i vetri sullo slancio di un agguato. Nulla. Anche il vicolo che costeggiava il caseggiato era deserto e quieto. Ma… Si sporse. Vide… gli sembrò di vedere. Tornò al palchetto della sala da pranzo, correndo disordinatamente con una sola babbuccia. Nel centro della piazza, immobile, c’era un cavallo.

 

 

Un cavallo. Lanciò occhiate come liane verso finestre e balconi in cerca di partecipazione. Avrebbe voluto gridare, svegliare tutto il paese: «C’è uno stallone in mezzo alla piazza e non sono io, sveglia!». Ma temeva che il quadrupede sarebbe fuggito e tutti lo avrebbero preso per minchione. Un Ardennese? Troppo slanciato. Arabo? Lipizzano? Sembrava in effetti un sontuoso esemplare da arie alte. La bestia lo guardava come Amon-Ra, ma senza gonnellino. Stava di profilo, in tensione, intemerato. Come una statua equestre, tuttavia privo di quell’orpello puerile che è il cavaliere. Non aveva l’aria furiosa di un cavallo del Mochi, ma preservava un che di lapidario. Sul notturno selciato della piazza, fra le mura antiche del borgo, sembrava sbrigliato da un dipinto di Théodore Géricault. Nudo di finimenti, dalla groppa magnificamente modellata, sul suo manto chiaro e denso si era coagulata tutta la dignità del mondo. Da dove veniva? Una carrozza padronale? Estinte. Non c’erano maneggi nei paraggi, scuderie… e anche fosse fuggito da un recinto, dove poteva essere transitato? Dalla provinciale?! Surreale. Mentre sfogliava celermente le possibilità, aspettandosi di veder accorrere un mozzo di stalla con le mani nei capelli, continuava a fissare quel superbo palafreno, che non si muoveva e lo fissava. «Giochiamo a chi abbassa lo sguardo per primo? A chi per primo scappa il labbro?», bisbigliò. Avrebbe voluto prendere la Polaroid, per impressionare quell’immagine, anche solo come conferma a se stesso. Sapeva dove trovarla, era nel cassettone, ma sarebbe stato troppo macchinoso. La bestia si mosse. Fece due passi in avanti, quindi due passi indietro, tornando nella medesima posizione. Piergiorgio P. era vittima di una dilatazione spaziale, un accenno di vertigine interiore. Indurì il suo cuore per scuotersi, retrocedette dalla finestra e mobilitò la camera. Senza fretta, il cavallo riprese il suo cammino, giù verso il centro del paese. Sentì ancora quel lontano scricchiolio di zoccoli, che prima non aveva identificato. Piergiorgio P. svestì quel poco che restava del suo impellicciato aplomb, la sua sola babbuccia di pannetto e calzò un paio di robuste ginniche. Scese così, in braghe corte, che a ben pensarci forse erano mutande. Schioppettò giù dalle rampe come fucilato da una doppietta Beretta, e poi fuori per la via. Vide il cavallo in lontananza, che procedeva perculeggiante. La coda, attaccata in alto come un pennacchio, roteava facendo sfrigolare crini di zucchero filato. «Ma no, asino d’un equino! Da quelle parte c’è la provinciale! Non andare di là, è pericoloso!». Urlava ora come una duchessa peripatetica, la voce gli usciva squinternata, ma nessuno si svegliò, nessun cane abbaiò. La notte era insensibile, audiolesa. Iniziò a nevicare.

 

 

Piergiorgio P. non aveva allacciato le scarpe e nel precipitarsi una gli si era sfilata. Inchiodò, la serrò. Ripartì. Non vedeva più l’animale. Tornò in casa; corse come non aveva mai fatto in vita sua, nemmeno quella volta in cui nonna Renza lo inseguiva brandendo altri zoccoli, ortopedici, i più temuti. Prese le chiavi dell’auto e ripartì con l’aiuto del motore. Si buttò sulla provinciale. Pensò che quello spettro zazzeruto fosse un’esca. Un’esca del destino. Scelse la destra, verso la città. Nulla. Proseguì per qualche chilometro attraverso un nevischio lattiginoso, poi fece inversione. E se fosse sceso verso il fiume? Accese gli abbaglianti. Incrociò una Renault 4, ma non se ne accorse. Nulla, ancora. Setacciò il selciato con occhi di lontra, cercò segni, ma di cosa poi? Di zoccoli? Escrementi? «Tornerà semplicemente da dove è venuto; forse è la sua sgambata notturna. Magari la fa spesso ed io non me ne sono mai accorto… ». Rise senza molta allegria. Rientrò verso l’appartamento con aria trafelata e prostrata. Parcheggiò.

 

 

 

Mentre a testa bassa infilava le chiavi nella serratura pensava a quella supposta alla glicerina custodita nella credenza per le occasioni speciali. Anche perché con la coda dell’occhio si accorse che l’animale era ancora lì, in mezzo alla piazza, precisamente dove lo aveva visto la prima volta; a venti metri da lui, in una nuvola di presagio. Piergiorgio P. gli si avvicinò come ci si avvicina alla felicità: con pudore. Gli fu a fianco. Cominciò a sfiorarlo e ne incrociò lo sguardo, che rifletteva il suo, meravigliosamente supplice. Sentiva l’anima squadernarsi. Si dice che chi trova il coraggio di soffiare nelle narici di un cavallo, lo fa suo per sempre. Piergiorgio P. soffiò, coraggiosamente e timidamente. E ora che fare? Montare in groppa e via, come un tracio-cimmero nella taiga? Non se la sentiva. Gli unici sport che aveva praticato negli ultimi tempi erano i pupazzi di neve e il subbuteo, benché in notturna. Lo accarezzò a lungo. Auscultò il suo respiro che disegnava spiritelli di vapore nell’aura e ne odorò la criniera. Non c’era sentore di stallaggio, di lavoro, in quella massa serica; profumava di caramelle toffee. «Come ti chiami?», gli sussurrò. «Forse non lo sai, forse sei venuto da me per questo, ti serve un nome… ». Lo pronunciò con albagia coloniale: «Sir Betto, da oggi ti chiamerai Sir Betto». Restò in silenzio, il petto del destriero si espandeva come per deflagrare, la sua frogia gli intiepidì il palmo della mano e un’ultima occhiata abbracciò la sua. Il cavallo stiracchiò con equino gentilgarbo qualche passo e poi iniziò a galoppare verso sud con l’impeto della pugna. Piergiorgio P. lancio il lazo di un urlo per accalappiarlo, come un gaucho cisalpino: «Torna da me!». Forse lo mancò.

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Trascorse il resto della notte al comando dei Carabinieri del paese, esulcerando la sua storia all’assonnato ufficiale, l’unico di provenienza indigena di tutta la provincia, che prese nota della vicenda con una faccia da massaia inacidita, liquidando la cosa con un rinfrancante: «L’è andé bei che l’era mìa un elefant d’la Loira Orfei!». Lo studente riprese la via mentre albeggiava. La neve aveva ormai ricoperto i suoi miraggi. I giorni seguenti passò in rassegna le testate locali, interrogò con metodo i gazzettini più linguacciuti del villaggio, ma nessuno aveva risposte. Nessun maneggio, galoppatoio, nessun fattore, nessuno circo segnalò la scomparsa di un cavallo. Non se ne seppe mai nulla. Per qualche settimana tornò alla finestra verso le quattro del mattino, in attesa del suo sonnambulo corsiero. Poi, con il tempo, si rassegnò. E il ricordo di quella notte cavalcò nel passato di uomo solo… per non farvi più ritorno.

 

 

 

Piergiorgio P. si laureò, due anni dopo. Divenne legale, ma per tutta la vita gli amici lo avrebbero chiamato “il protettore”, a causa di una romantica passione per le cocotte. Visse un’esistenza lieta, la guardò di sguincio. Gli mancò sempre l’energia necessaria per coltivare al meglio la sua pigrizia, forse per un difetto di motivazione. Quando era ormai venerabile, accusò un malore mentre si trovava alle giostre con gli amati nipotini. Si accasciò sul suo cavallo e morì.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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