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In una contemporaneità dove tutto si infetta rapidamente, anche le poche idee che provano a emergere, c’è un aspetto rinfrancante – balsamico direi, perché aiuta a respirare meglio – sul quale rifletto da un po’ di tempo. Non ho vissuto l’intera storia dell’umanità di persona, ma ho l’impressione che il danaro, lo status, la fama, non siano mai stati così poco attraenti come oggi. In un’epoca in cui quasi tutti hanno voce, dove non c’è selezione all’ingresso, dove tutto si conta e niente si pesa, chiunque può ottenerli e chiunque è sotto scacco. Non esiste una figura al riparo dall’insulto, dall’aggressione gratuita, dalla menzogna. E tanto più è esposta, tanto più è vulnerabile. L’altra sera da Lilli Gruber si discuteva ancora di fake news, ma soprattutto del wild wild web, di come fare per proteggersi attraverso il selvaggio cosmo multimediale. Nel corso della pur interessante conversazione, dove si elevava Barbara Alberti, non si riusciva a penetrare la superficie del bubbone, fino al suo nucleo putrescente, ovvero: non esiste più ruolo, competenza o ufficio che imponga rispetto in virtù della sua stessa onorabilità. L’uomo giusto sempre porterà rispetto a chi merita rispetto, ma il vile, un tempo spaventato o intimidito dalla carica, oggi non lo è più. Che ciò sia bene o male è controverso, ma da qui si deve partire per comprendere e monitorare ogni insolenza. Anche il Papa, il Cristo in terra, viene sbertucciato quotidianamente. Con fondate ragioni, peraltro. E l’uomo più potente del pianeta, specie da quando abita la Casa Bianca sotto tale acconciatura, è diventato la barzelletta di riserva per le serate con gli amici: se si vuole sollazzare gli astanti, basta infilare Trump nel mezzo e la caciara decollerà. Abbiamo a tal punto disonorato le cariche, le istituzioni… che queste non propagano più alcuna aura di dignità. Leggere Il Cappotto di Gogol’ è a tal proposito illustrativo. I celesti sfottò di Nikolaj verso i funzionari della burocrazia di Pietroburgo spiccavano il volo proprio nel contrasto fra la riverenza che suscitavano-pretendevano e la grottesca miseria che incarnavano. Oggi non esiste più alcun simbolo della riverenza, alcuna gerarchia del rispetto. In questo la democrazia ha vinto, ma non perché tutti vengano rispettati in virtù del tocco divino di cui sono depositari; piuttosto perché tutti hanno – indipendentemente dalla propria estrazione, dal proprio censo, formazione o aspetto – eguale accesso alla denigrazione generale. Questa inopinata democratizzazione, accelerata dall’avvento del web, ha svestito la miseria dalla sua uniforme di ossequio, inghiottendo anche la possibilità della satira. Non esiste più alcun traguardo raggiunto, professionale o umano, che susciti unanime consenso. Il cortocircuito democraticista per il quale tutti hanno il diritto di competere sulla piazza del mondo, porta implicitamente ciascuno a non sentirsi inferiore a chi occupa ruoli di prestigio, perché non si ha alcuna fiducia del processo di selezione che li ha distribuiti. Il mio fornaio è un uomo di maggior cultura e integrità del mio ministro della Giustizia. Ma anche ove vi fosse una corrispondenza fra importanza del ruolo e valore della persona, non c’è valore nella maggioranza di chi giudica e quindi si troveranno comunque migliaia di cittadini minchioni o/e incompetenti che daranno del minchione, dell’incompetente, anche al più meritevole fra gli uomini. Inoltre, avendo voce, sempre più voce e in presa diretta, in ogni momento e da ogni luogo, saranno in grado di screditarlo con la forza della malevolenza, che sui più meritevoli tende ad accanirsi con maggiore acrimonia. Basta vedere che cosa succede qui da noi, dove Vittorio Sgarbi, un genio che fa l’istrione più per accessi nevrotici che per gigioneria, viene dai più considerato un buffone; mentre Renzi, un buffone che si crede genio, ha portato il timone del governo a furor di consenso. Ma qui non si tratta di colpevolizzare la critica indirizzata a qualche eminenza grigia, piuttosto di riscontrare il terrorismo dell’opinione. Ho riflettuto molto sul tema, senza venirne compiutamente a capo. Sono certo che da voi arriveranno, come sempre, spunti incisivi e chiarificatori, ma la questione è veramente malagevole e vescicante.

 

 

 

Scendiamo dall’alto della speculazione al basso della circostanza, dall’universale al particolare più spicciolo. Prendiamo un blog come questo. Un piccolo spazio di confronto le cui regole si plasmano nella convivenza. Per quanto ne so, chiunque può accedervi e dare impunemente del pirla al padrone di casa o agli altri ospiti. Come in molti altri spazi virtuali. Chi delimita dunque il confine fra la libertà d’espressione e la molesta provocazione, fra la legittima convinzione e l’illegittima coglionata? Il dramma dell’intelligenza è che risulta invisibile per chi non ne possiede, cionondimeno deve legiferare anche per chi non la mette a fuoco. Quindi se fra persone intelligenti si trova naturalmente il giusto tono nel rapporto, financo nel conflitto, quando è il momento di interagire con chi non comprende questo tono, in assenza di regole certe subentrano i guai. Nel momento in cui censuro sulla base del mio insindacabile giudizio, perché ne ho facoltà, magari per la certezza di essere incappato in un imbecille, agisco saggiamente? «Agisici in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale». Non troverò forse innumerevoli imbecilli a cui in altri luoghi, magari ben più illustri e influenti di questo, è stata data la stessa facoltà? E se questi si sentiranno liberi di agire allo stesso modo, censurando sulla base del loro insindacabile giudizio, che cosa accadrà? Il metodo intacca dunque il merito? Se io medesimo, in una crisi acuta di disturbo dissociativo dell’identità, entrassi da commentatore in questo blog e dessi del coglione a un altro lettore… per poi venire epurato, non accuserei forse Augusto Bassi di essere un pretino, un bacchettone del correttume incapace di sopportare opinioni sincere? Per quanto dissociato, mi piace immaginarmi sempre incapace di inciviltà, quindi escludiamo l’ipotesi. Ma se, tornato in me, al contrario lascerò gli imbecilli veri liberi di esprimersi, di maramaldeggiare, non permetterò forse che l’imbecillità imbratti senza posa la tela dell’intelligenza, sfregiando l’armonia del confronto? Perché contro l’imbecille non c’è lama abbastanza affilata, giavellotto abbastanza penetrante: «Colpito dalle lance nostre o dei pochi alti ostinati partecipanti alla giostra, non cadrà mai dal palo, girerà su se stesso all’infinito svelando per un istante rotatorio il ghigno del delirio, della follia». Quindi che fare?

 

 

 

 

Paolo Pagliaro nel suo Punto parlava del Manifesto della comunicazione non ostile, recente vademecum che si propone di regolamentare civilmente il caos digitale. Manifesto redatto da Parole O_Stili, un progetto di sensibilizzazione contro l’ostilità delle parole in Rete e nei media che nasce con l’obiettivo di ridurre, arginare e combattere le pratiche e i linguaggi negativi. Il primo punto già mi fa benevolmente sorridere: “Dico e scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona”. Deterrente fiacco. E se il soggetto in questione anche di persona si sentisse a suo agio nello sparare stronzate a nastro, provocando e insultando? Se fosse proprio quello che va cercando la rissa? Il bullo multimediale non coincide con quello da bar, ma a coincidere sono condotte e conseguenze, mutatis mutandis. Eppure, sono i punti 2 e 8, in evidente contraddizione, che provocano il più forte disagio logico. “Si è ciò che si comunica”, asserisce il punto 2. “Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare”, prosegue il punto 8. Ma se in uno spazio virtuale si è ciò che si comunica, nel momento in cui le idee che si comunicano non sono rispettabili, chi le comunica non dovrebbe avere diritto ad alcun rispetto. Se virtualmente coincidiamo con ciò che comunichiamo, dovremmo essere pronti a correre il rischio di non essere rispettati. Come accade di persona. Quando un cittadino sceglie di farmi il dito medio mentre gli domando di non telefonare alla guida, io non lo “devo rispettare”. Perché la sua persona, nella dimensione della nostra interazione, coincide con ciò che comunica. “Le persone si devono rispettare” suona dunque come vuota petizione di principio scomunicata dalle stesse premesse. C’è un’ingenuità di fondo in tutti questi pur lodevoli tentativi di scopare il mare virtuale dalla spazzatura della farragine e della prevaricazione, che ignora l’empirica evidenza sopra riportata: oggi nessuno pensa più di essere inferiore a nessuno e sente il dovere di manifestarlo. L’educazione è percepita come mancanza di autostima. L’incompetenza non frena, non imbarazza. E quando si intercetta vera intelligenza, magari sorretta da competenza, queste non fanno più molta impressione, perché hanno armi inastate incapaci di sradicare il palo. La stupidità è diventata un diritto d’opinione, e lo stupido, che ha istinto per la debolezza e fiuta l’intelligenza, pur senza scorgerla, sa che quest’ultima ha perso l’uso legittimo della forza. Come ho già scritto, la libertà individuale si è trasformata in licenza collettiva. E la licenza collettiva è caos, delirio.

 

 

 

 

Tuttavia, come anticipavo all’inizio, questo tramestio di sorci ha il benefico effetto di disinnescare ogni possibile orgoglio di affermazione. Ha il potere di stimolare la saggezza della marginalità critica. In un mondo da Grande Fratello, popolato di yuotuber, dove la fama è a buon mercato, dove il successo è mera concordanza con la stupidità dei tempi… che deliziosa liberazione dagli aneliti di pubblico riconoscimento si può sperimentare! Perché anche quando la reputazione non è sinonimo di mediocrità, come nel cinema per esempio – che registra una straordinaria concentrazione di talenti integrali – la sua rispettabilità si rivela inerme, stritolata dall’industria culturale che fa dei fuoriclasse brand di se stessi e dall’intolleranza della confessione liberal di dominio che costringe a recitare anche fuori dalle scene. Quanto ai soldi, una volta c’era almeno una vaga corrispondenza fra ricchezza e cultura, fra ricchezza e gusto. Di questi tempi si verifica l’opposto. La ricchezza viene accumulata da zotici di tutte le etnie che ostentano assenza di gusto e di cultura, benché certi di averli comprati al Dubai Mall. Siamo tornati ai tempi di Nerone e Trimalcione, ma senza arbitri d’eleganza nei pressi a raccontarne la volgarità. A meno di considerare Sorrentino un novello Petronio.

 

 

 

Quindi, in conclusione, la smania di successo sociale, di visibilità, di like, di ricchezza, è oggi inequivocabilmente per i brutti di spirito o per gli ingenui. La guerra al terrorismo dell’opinione non si può vincere senza rifondare un meccanismo di retroazione positiva fra ruolo, valore, rispetto; rispetto, valore, ruolo. E questa rifondazione non sembra possibile sotto questi chiari di luna. Ci è dunque concesso come mai prima, forse, il privilegio di non dover invidiare nessuno per il suo status, per i favori della notorietà. E ci viene affidata la pacificata opportunità di concentrare le nostre attenzioni nella cura dell’orto, fuor di metafora, degli affetti, prendendoci il tempo per passeggiare senza fretta con il cane o con il nonno ottuagenario, e magari gustarci il piacere di conversare con interlocutori intelligenti su un blog periferico che può ancora fare a meno degli imbecilli per esistere, osservando con un sorriso lo sciocco affanno delle ambizioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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