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La polemica esplosa fra Vittorio Sgarbi e Corrado Formigli ha avuto seguito questa sera alla non Arena di Massimo Giletti. Recuperando alcune riflessioni esposte nella pagina precedente del blog in maniera beffardamente dimostrativa. Ma andiamo per ordine. E mi perdonerete le inevitabili ellissi o semplificazioni. Nel corso del programma Piazza Pulita di mercoledì scorso, il conduttore Corrado Formigli manda in onda un servizio sulle criminalità minorile a Napoli. Un reportage dove l’inviata Micaela Farrocco racconta lo squallore esistenziale delle baby gang partenopee, intervistando alcuni ragazzini. Un approfondimento destato dal ferimento del giovane Arturo da parte di ignoti minorenni di rione, la cui madre, Maria Luisa Iavarone, era ospite del programma di La7 per chiedere giustizia. Vittorio Sgarbi, in collegamento, al termine del reportage segnala come rimestare nel torbido dell’orrore, nel vivo del degrado, sia il miglior modo per creare emulazione e bene sarebbe non mandare in onda servizi del genere. Formigli, immantinente piccato, replica così: «Vittorio…ma che cacchio dici?!». E ancora: «Queste sono cretinate». Da lì al critico si chiude la vena e inizia a inveire sul conduttore, accusato di essere un uno stronzo senza cultura, uno che sfrutta il disagio per fare ascolto, uno dai pensieri piccini, e dopo minaccia di chiusura collegamento, di essere un «fascista, fascista, fascista!». A quel punto Formigli toglie l’audio all’ospite. L’accalorata accusa di Sgarbi trova puntuale rampogna sulla stampa nelle ore successive, in un articolo firmato Adriano Celentano e indirizzato a mo’ di lettera aperta direttamente a Vittorio:

 

«Quel servizio sulle baby gang che tu hai tanto criticato è stato una vera e propria mano santa al servizio dell’informazione. Ci ha fatto capire fino a che punto lo STATO italiano se ne sbatte le PALLE dei cittadini. Fra poco, le armi a quei ragazzini che picchiano e uccidono senza una ragione arriveranno da Palazzo Chigi. E gli elettori, quelli che ancora non si sa per chi andranno a votare, ma andranno, lo stanno capendo grazie a uomini come Formigli. E tu gli dai dello stronzo? Eh no, Sgarbis, lo stronzo sei tu».

 

 

Il critico d’arte ferrarese, ospite questa sera da Giletti per difendere le proprie ragioni, ribadisce che quel genere di informazione crea contagio verso l’ignoranza e il degrado, e che sappiamo già quanto lo Stato se ne sbatta le palle dei cittadini. Suo scopo, da politico e divulgatore, è precisamente portare la bellezza in quei luoghi, raccontare una Napoli diversa da quella dell’emarginazione, che pure brilla agli occhi di chi voglia guardarla. E che questo dovrebbe fare anche il giornalismo televisivo: «La televisione è come la scuola, deve educare». Presente in studio come rappresentante di quel giornalismo che rivendica imparzialità, a cui accennavamo ieri, c’è Massimo Giannini, il quale prende prevedibilmente le difese di Formigli dando a tutti noi una preziosa lezione deontologica, addottorandoci con la stolida lagna della realtà, dei fatti, che è un preciso dovere del giornalista raccontare. Presta giustificazione a chi predilige sciaguattare nello squallore, perché solo in quello prospera. Ma la chiosa morale, ironica e definitiva, giunge dall’ineffabile Massimo Giletti. Fino a quel momento comprensivo verso le ragioni di Sgarbi, accompagnate con espressioni compite e scrutatrici, il conduttore decide infine di ossequiarle rimandando in onda il reportage di Piazza Pulita sulle baby gang. Quod erat demonstrandum.

 

Ora, mi sono appena espresso sul giornalismo e non voglio ripetermi. Credo che la malafede non possa essere riscattata, ma soltanto messa a tacere. Mi servirò allora di una analogia, contro le false analogie in essere. Salvini viene quotidianamente accusato di seminare odio. Proprio da quei giornalisti “super partes” alla Giannini e alla Formigli. E lo si ammonisce sulla certezza che l’odio genera odio. Ma quando uno Sgarbi segnala che l’orrore genera orrore, che celebrare il degrado genera emulazione del degrado, che raccontare il crimine di quartiere con quel maledettismo di maniera che fa tanto ascolto, con tono fintamente sdegnato ma in fondo compiaciuto, con falso cordoglio e vero opportunismo… gli si risponde che la realtà non può essere sottaciuta. Dovere del giornalista è raccontarla. Ebbene, alla malafede andrebbe tolto l’audio. Per sempre.

 

 

Concludo con una postilla pedagogica. Pur innamorato della bellezza in ogni sua manifestazione, non credo che salverà il mondo in un’epifania decontaminante. Ritengo che l’educazione alla bellezza possa. E a Napoli, come in tutte le periferie disperate del globo, serve precipuamente un ritorno all’educazione. Che passi dai modelli di riferimento famigliari prima che dalla Scuola di Posillipo di Giacinto Gigante o dalla Flagellazione di Cristo del Caravaggio. Che rifletta sull’assenza dei genitori prima che su quella dell’istruzione scolastica e dei libri. Tutti i ragazzetti intervistati parlavano di padri in galera, di famiglie assenti, di assoluta solitudine affettiva ed educativa prima ancora che didattica. Su questo deve riflettere la politica, come priorità assoluta. E anche Sgarbi non ha saputo porre la giusta enfasi sul momento di mediazione fra il conoscere e l’agire, che passa sempre dal sentimento del piacere. Per quanto un bambino sia messo di fronte al divino spettacolo dell’arte, la finalità non può prescindere dal suo bisogno di vivere intersoggettivamente quel sentimento verso il bello e il santo, guidato da una figura di riferimento che ne  ispiri la condotta. Così come lo spettacolo della marginalità e dell’efferatezza che lo circonda non verrà mai afferrato compiutamente senza un intermediario affettivo primario, che istituisca accoglienza e autorità, coraggio e senso del limite. Perché… come nelle parole del precettore di Emilio: «Invano gli abissi dell’infinito sono aperti tutto attorno a noi: un fanciullo non ne può essere spaventato: i suoi occhi deboli non ne possono sondare la profondità. Se si parla ai fanciulli della potenza di Dio, essi lo stimeranno quasi forte quanto loro padre».

 

 

 

 

 

 

 

 

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