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A due giorni dal voto, tanto è ancora imprevedibile. Tanto, ma non tutto. Posso infatti spendermi in un vaticinio, con buoni auspici di successo. Chiunque vinca, a perdere sarà certamente il circolo dei puzzacchiotti GEDI. E sarà buffissimo, nel dramma, osservarli mentre prendono, di nuovo ma sempre improvvisamente, coscienza della loro creatura alata: la democrazia. A fondamento di tale sorpresa, l’ebetudine che li definisce e li colloca. Procediamo come farebbe Norberto Bobbio, che su di loro fa sempre un certo effetto.

 

 

 

La conquista dei diritti civili – come il diritto di associazione, di riunione, di stampa, di opinione, etc. – ha condotto naturalmente all’istituzione del diritto democratico, ovvero del diritto di prendere parte alle decisioni politiche. Da qui si può definire la democrazia in senso procedurale, ovvero come un metodo per definire delle decisioni. Chiamiamo dunque associazione democratica un gruppo organizzato che permette a tutti i membri di partecipare al processo decisionale e che delibera a maggioranza. Ora, poffarbacco, chiunque abbia assistito anche soltanto a una riunione condominiale sa che questo sistema produce deliberazioni imperfette. Un condominio è abitato quasi certamente da una maggioranza spuria composta da un misto di gaudenti bighelloni, forsennati cacacazzi, infingardi irresponsabili, e, lasciando a tutti la possibilità di partecipare, in genere si giunge a risoluzioni abborracciate. Ma loro, gli intellettuali progressivi, non lo avevano afferrato. Fino a quando la deliberazione incontrava i loro desiderata, poiché i condomini erano affittuari sotto lo stretto controllo prima del demanio e poi dei fondi immobiliari ideologici, la procedura era venerabile. Inviolabile. Massimo traguardo delle umane genti. Allorquando le decisioni a maggioranza cominciarono a formarsi fra le suggestioni di Mike Bongiorno e Marco Van Basten, e a eleggere, poi rieleggere, magari un Silvio Berlusconi… il naso iniziò a torcersi, la forfora a imbiancare il velluto dei baveri. E vennero i talk show di Santoro, le marce dei professori e i girotondi di Nanni Moretti. Con l’arrivo del web, delle cavallette grilline, di Matteo Salvini, infine di Donald Trump… le loro certezze sono definitivamente collassate. E allora proclamano, fra l’afflitto e lo stizzito, la crisi democratica. Perché? Perché i diritti civili garantiscono libertà di opinione, la democrazia decide a maggioranza, e santi numi quanta ignoranza!

 

 

 

 

Michele Serra, Corrado Augias e Denise Pardo nei prossimi mesi raccerteranno che Tom Nichols ne «La conoscenza e i suoi nemici» aveva ragione, che gli incompetenti hanno trionfato facendo lo scalpo alla sovranità, trascinandoci nella barbarie dell’opinione, nella babele dell’analfabetismo funzionale. Loro, paladini del popolo, si sono inopinatamente accorti che il popolo non sa niente – anzi, meno di niente, perché appena orecchia qualcosa sprofonda nella voragine delle fake news – ma si sente, non si capisce come, in diritto di partecipare. Che stramberia! Gli intellettuali engagé occidentali – perché sono squisitamente conformati dal Village alle terrazze romane – mi ricordano un professore di semiologia dei linguaggi creativi che conobbi anni fa, il quale non si dava pace per la riservatezza del suo pappagallo, un cicciuto cenerino che si faceva i fatti suoi. Ce l’aveva già da sei mesi e quello non proferiva verbo, neppure un fischio. «O è muto, o è coglione», soleva lamentarsi con i convitati. «Buonasera! Proviamo insieme… b-u-o-n-a-s-e-r-a!», ma quello impassibile. Allora studiò con diligenza manuali sul tema, si impossessò delle più avanzate tecniche di addestramento alla parola. Si dedicò al pennuto con sessioni mirate quotidiane, ne incoraggiò i comportamenti imitativi, procedette con un metodo incrementale, gli fece associare i movimenti ai vocaboli, gli diede ricompense ai primi suoni confusi e punizioni alle testarde reticenze, lo fece uscire dalla gabbia per qualche sgambata domestica, si avvalse di registrazioni sonore come del contributo di amici, lo fece partecipare a serate conviviali. E quando finalmente, dopo tante amorose cure e mesi di tirocinio, il pennuto articolò le sue prime parole, queste furono: coglione, coglione… sei un coglione!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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