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Per seguire le elezioni statunitensi di metà mandato ci sintonizziamo su La7, pronti ad abbandonarci fra le braccia di un giornalismo equanime, fattuale, lontano da ogni settarismo, da ogni faziosità. Eloquente conferma in tal senso era giunta già ieri sera, con il documentario Fahrenhheit 11/9 di Michael Moore, scelto come rito iniziatico al main event precisamente per quel suo approccio spassionato alle vicende Usa. Nel simpatico nido di cornacchie della Rete, in esordio spicca il perennemente appollaiato e sempre più attapirato Marco Damilano. Benché il suo Espresso sembri ormai a fine corsa, il direttore pontifica sempre con una certa prosopopea, sferrando stoccate di vaccinara e testosterone ad Alessandra Sardoni, inviata pertinentemente in Texas, dove il suo romanesco salsiccia e fagioli è di casa. Sono infatti i collegamenti a stimolare nel maschio telespettatore il più conservatore fra i gesti scaramantici: toccarsi le balle. E non per partigianeria trumpiana, ma per il semplice fatto che si vedono le facce di Maurizio Molinari e Aldo Cazzullo.

 

 

Il direttore della Stampa è ancora devastato dagli avvenimenti del 2006 e sembra sempre un maniacale collezionista di francobolli che ha appena scoperto urina di gatto sul suo Red Mercury. Memorabile il suo rotacismo liberal, reso ancor più tremebondo dall’avanzare repubblicano, impiegato in virtuose sequenza come: «Achevata, pivatata e divovata». Più arzillo Cazzullo da New York, benché tutto stropicciato e ancora convinto che Trump sia un’anomalia. Perché lo si riteneva un improbabile. Una persona di cui si ride. Valutazioni che affermate a 24 anni dalla discesa in campo di Berlusconi – trattato perennemente allo stesso modo – fanno capire quanta acuzie vibri ancora nel discernimento cazzulliano. Se il verbo della serata è sicuramente “polarizzare”, ripetuto senza posa in tutte le sue coniugazioni, anche sintagmi come «cavalcare la paura», «l’America profonda», «i voti di pancia», vengono liberati con la consueta generosità. Vista l’inopinata assenza di Paola Peduzzi, l’unica donna in studio è la giovane professoressa Marina Calculli, che sculaccerei amorevolmente con una copia di The American Spectator. Damiano Ficoneri dalla Florìda, come pronuncia un Franco Bechis molto 3.0, con una voce rotta dall’emozione e capace di stimolare nel pubblico femminile urletti eccitati, ci ragguaglia sul probabile trionfo di Nelson. Ma la più esatta centratura dei fatti ci viene ineluttabilmente offerta da Mario Sechi, sempre lucido voyeur degli spogli notturni: «Nelson è senza alcun dubbio favoritissimo, diciamolo», e qui sono i democratici a toccarsi le balle, perché Sechi è il Fassino degli analisti.

 

Chicco padroneggia lo studio e i collegamenti da par suo, si muove fra le cattedre con l’indolente elasticità del coguaro, ma è sempre reattivo, dialetticamente graffiante, implacabile predatore della notizia: prende per il culo i mezzi nerd/mezzi hipster seduti ai tablet, parla della tensione sessuale fra Sardoni e Damilano e fulmineamente tuona: «Nelson pari!». Mentre la battaglia sulla Camera è ancora apertissima a due ore dall’inizio dello spoglio, resta solo una certezza cui aggrapparsi, come ci spiega Calculli: «La delegittimazione della parola degli esperti, dei giornalisti, decentralizzazione dei poli che fanno struttura, che creano opinioni, che spostavano le opinioni delle masse, di cui ora non ci si fida più». E come sarà successo? Strattonati come siamo dalla parola degli esperti in studio, capaci di strutturarci, non ce ne facciamo una ragione. Il mistero resta impenetrabile. Quasi come sarebbe una nuova vittoria repubblicana in Florida.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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