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L’articolo precedente ha indirettamente stimolato una discussione su capitalismo e liberalismo. Sistema economico e dottrina politica prodotti dalla degenerescenza dell’Illuminismo, eppure percepiti dalle masse come “naturali”. Perché quel fallimento ha trionfato. Non è nelle possibilità di un blog satirico affrontare sistematicamente temi di tale complessità, ma trovo comunque giovevole condividere spunti e offrire contributi. La mia esperienza intellettuale, per quanto angusta, è stata segnata da due epifanie, che trovo a tutt’oggi illuminanti: Dialettica dell’Illuminismo (Max Horkheimer e Theodor Adorno, 1947) e After Virtue (Alasdair MacIntyre, 1981). In epoche diverse, con approcci e acuzie differenti, sono entrambe geniali critiche dell’Illuminismo e del suo figlio mal nato, il liberalismo contemporaneo. Se da ragazzo avevo con convinzione considerato l’autonomia kantiana come massima aspirazione razionale dell’individuo, questi due libri hanno avuto il potere di farmi riflettere sulle ripercussioni “sociali” causate dall’umana incapacità di universalizzarne gli esiti. Il progetto illuminista è fallito nel momento in cui ha sradicato, spogliato e mutilato l’individuo, eppure la sua impalcatura subliminale resta in piedi come una città fantasma abitata da morti viventi. Nella quale viviamo.

 

Ora, se la miserabile sinistra odierna ha pavidamente e opportunisticamente abbracciato profitto e diritti, per realizzare la schiavitù totale di un dominio che riduce tutto a merce, c’è ancora un pensiero capace di reagire. Sconosciuto ai più. Che parte forse da John Ruskin e arriva almeno ad Alain de Benoist. Per quanto Nabokov ci abbia ricordato che un grande scrittore è prima di tutto un grande incantatore, e non uno storico, quando leggiamo Charles Dickens troviamo nei bambini della rivoluzione industriale, in quei “sudici piccoli infelici”, l’incarnazione dell’inizio dell’incubo della ragione strumentale al potere. Che oggi si è digitalizzata e mondializzata. Per riflettere su tutto questo e per pensare orizzonti alternativi sulle ali dell’eudaimonia, suggerisco a voi amici la lettura del libro «L’anticapitalismo di destra», Oaks Edtrice (Giorgio Galli e Luca Gallesi), di cui riporto la bella presentazione firmata da Mario Bozzi Sentieri:

 

 

Da Brooks Adams, autore, nel 1895, de La legge della civiltà e della decadenza – Saggio sulla grandezza e il declino, a Silvio Gesell, teorico della moneta prescrittibile, da Othmar Spann, con la sua critica al capitale finanziario e all’organizzazione monetaria, agli autori della Rivoluzione Conservatrice, da Camillo Pellizzi, studioso del corporativismo, a Ezra Pound, il poeta contro l’usura, per arrivare alla Nouvelle Droite, a emergere, su scala internazionale, è un variegato pensiero “alternativo”, “da destra”, al capitalismo, scandito da alcuni temi forti: la critica alla democrazia rappresentativa, vista come campo d’azione dei poteri occulti della ricchezza, in grado di manipolare il libero voto dei cittadini; i rischi rappresentati dalla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi; l’assolutismo del potere azionario e finanziario a scapito dell’economia produttiva; l’opposizione al marxismo, alle sue idee sul plusvalore, concepito come un guadagno dovuto all’abuso di potere consegnato alla proprietà, e al conflitto di classe, visto come la premessa necessaria e inevitabile per la costruzione del “paradiso” proletario; la volontà di realizzare un fronte unitario, nazionale e sociale, contro la schiavitù dell’interesse; il rifiuto dell’idea che lo Stato debba “morire”, idea frutto di una concezione puramente individualistica della società; la difesa dell’identità popolare, segno di un patrimonio immateriale visto come base del populismo patrimoniale.

Luca Gallesi, con il saggio “Digressione sull’anticapitalismo della ‘destra’ culturale anglosassone e angloamericana”, corrobora – da parte sua – le indicazioni di Galli con una serie di efficaci riferimenti letterari e politologici, che fanno emergere le suggestioni di una critica “da destra” del capitalismo, impegnata a denunciare la dilagante “plutocrazia”, volgare e materialista, dominio dei più ricchi a scapito dei migliori.

Significativa di questa visione l’opera del più grande scrittore inglese dell’Ottocento, Charles Dickens, autentico paladino contro le ingiustizie che affliggono i ceti più deboli della società, con le sue critiche alla supremazia del Denaro, critiche tanto spietate quanto ironiche (esemplare e famosissima la figura dell’avaro Scrooge del “Racconto di Natale”).

Dickens peraltro non è un esempio isolato. L’Europa della metà del XIX secolo è percorsa – come puntualizza Gallesi – dai fremiti di una cultura “reazionaria” contraria al capitalismo, che vede in prima linea scrittori popolari come John Ruskin (con le sue denunce nei confronti di una società che si è trasformata da un organismo vivente e solidale in un meccanismo arido ed efficiente, che divora il tempo e le vite degli uomini), sodalizi intellettuali (I Nazareni in Germania e la Confraternita Preraffaellita nel Regno Unito, con i loro richiami a uno stile di vita comunitario e misticheggiante) e ancora Thomas Carlyle (impegnato a dimostrare come siano le idee e soprattutto gli uomini, e non, quindi, i rapporti di produzione, né la forza bruta del denaro a muovere la Storia), William Morris (promotore del Movimento per le Arti e Mestieri, caratterizzato da un pensiero anticonsumista ed antimoderno). Emblematici lo spirito anticonformista dell’architetto A.J. Penty (che così sintetizzava la sua visione: “La società democratica mira all’abolizione di tutti i privilegi, mentre lo scopo della società medievale era di garantirli a tutti”), il socialismo corporativo di Alfred Richard Orage (direttore del settimanale “The new Age”), le denunce di Hilaire Belloc contro lo sfruttamento del lavoro popolare, fino all’idea di Ramiro de Maetzu (che, nella sua opera Politica, estetica e giornalismo, dopo avere evidenziato l’innegabile crisi del sistema liberal-capitalista, auspica la condivisione della proprietà dei mezzi di produzione e la partecipazione dei lavoratori alla conduzione dell’azienda).

Per la ricchezza dei riferimenti e l’originalità degli autori proposti il libro di Giorgio Galli e Luca Gallesi è un autentico giacimento culturale, da scoprire ed approfondire, che va ben oltre la semplice rassegna storico-letteraria. In L’anticapitalismo di destra c’è infatti – non solo tra le righe – molto dell’attualità e della cronaca viva del nostro Paese.

Come scrive Galli “la sedimentazione dell’anticapitalismo di destra ha avuto sufficiente spessore, in Italia, da motivare, dopo il voto del 4 marzo 2018, la sperimentazione di un inedito e imprevedibile governo tra Cinque Stelle e Lega, definito populista dal suo premier alla presentazione in Parlamento”.

La recente fine della prima esperienza populista di governo, segnata dalla nuova maggioranza giallo-rossa, non intacca la portata culturale dell’anticapitalismo “di destra”. Nei nuovi contesti politici e di governo gli dà anzi nuove ragioni, nella misura in cui anche da qui, dalla consapevolezza di una tradizione ampia e complessa, in cui i temi dell’anticapitalismo “di destra” rimangono centrali, passa una ripresa di ruolo del populismo sovranista, un sovranismo sovranista maturo, non legato esclusivamente alle stagioni della politica e dunque in grado di vivere ben oltre le contingenze. E perciò di radicarsi, a partire dalle “visioni” che tanti autori ci hanno trasmesse, di durare, di incidere nel profondo degli orientamenti collettivi, offrendo inusuali punti di vista, intorno ai quali lavorare, immaginando nuove sintesi politiche e programmatiche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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