why-goldman-sachs-is-encouraging-employees-to-talk-about-race-at-work--and-why-as-a-black-woman-i-think-this-is-so-important

L’episodio della direttrice di una filiale mantovana di Intesa Sanpaolo è ormai argomento di dibattito nazionale e forse farà giurisprudenza per i casi di prevaricazione multimediale. Come saprete la sventurata Katia, da oscura dipendente di una sede provinciale, dopo il suo maldestro video di promozione aziendale è diventata una popolare macchietta con la quale sollazzarsi sadicamente per qualche minuto. Mi ero già espresso sull’arma da estrarre in casi analoghi, ovvero l’autoironia, che rende invulnerabili ad affronti di superficie, ma ora vorrei guardare le cose dall’alto. Ho letto molti interventi e articoli sulla vicenda, e com’era prevedibile tutti si concentrano sul tritacarne del web, sul cyberbullismo, o tutt’al più sul silenzio dei vertici di Intesa e dei sindacati, che hanno abbandonato un loro manager ferito sul campo di battaglia. Sfugge invece la vera mostruosità, che ci ha a tal punto assimilato, fagocitato, da rendercela invisibile. L’isteria farsesca della direttrice è tanto più inquietante quanto più involontaria. Eppure la sua delirante inettitudine è come l’ultimo disperato grido d’aiuto di una natura mangiata viva dal ruolo, dal «job», cui cerca di conformarsi ancora mentre viene masticata: «Io ci sto! Ci metto la faccia, ci metto la testa, ci metto il mio cuore!». Ciò che di lei ci fa ridere è la dissonanza fra quello cui siamo abituati – ovvero lo spot di un’efficace e avvenente strumento di propaganda aziendale in tailleur – e la delirante esibizione di una dilettante. Ma quella strampalata marionetta ha ancora, nella sua infantile, dilettantistica stramberia, un rigurgito di umanità. Un’umanità che non è stata completamente inghiottita. Mentre la professionista perfettamente in parte, sorridente eppure austera, che con disinvolta e artificiale efficienza presenta il suo team e ci invita ad affidare denaro alla banca, è il risultato dell’orrore compiuto. Integrale. Definitivo. Perché quella conformità è frutto dell’inumana impresa di aver fatto di se stesse l’apparecchio più adatto al successo, conforme appunto, fino ai moti più istintivi, al modello presentato da un’azienda che finanzia i mezzi di comunicazione ideologici. La pubblicità è penetrata così profondamente nell’idioma esistenziale, da farci percepire come “pazza”, come “squilibrata”, chi non è capace di farla per bene.

 

 

 

«Era un contest aziendale», si legge nei commenti. «Non andava reso pubblico, è un sopruso!». In queste argomentazioni c’è il trionfo dell’ottenebramento da schiavitù dipendente e ignara. L’inconscia parafrasi è: non vanno svelate le crepe della lobotomia impiegatizia, i prodotti mal funzionanti. Va messa sul mercato solo merce umana perfettamente riuscita e approvata dal trust. Non sia mai che una Katia ci sveli l’orrore celato. «Io ci sto! Ci metto la faccia, ci metto la testa, ci metto il mio cuore!».

 

 

 

 

 

 

 

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