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Come probabilmente saprete, nel corso dell’ultima puntata del programma televisivo Piazza Pulita, condotto da Corrado Formigli, c’è stato un arcigno scambio di opinioni fra i giornalisti Rula Jebreal e Nicola Porro. Ne ha dato notizia, fra gli altri, Paolo Bracalini, esibendosi in una vivida pagina di informazione giambica. Ancor più irsuto è stato Maurizio Crippa, sul Foglio, che ha lodato la capacità della bella israeliana di muoversi con virtuosismo fra una stronzata e l’altra. Quindi non c’è più bisogno di alcun colpo basso nei confronti della Jebreal, anche in considerazione del fatto che mi ero già occupato di lei nel marzo scorso (Le zie non sono gentiluomini), in un pezzo dove citavo proprio il malcapitato Ernesto Galli Della Loggia, che giovedì sera ha avuto la sfortuna di incrociare frontalmente la passione della tolleranza broad-minded, sperimentata prima di lui da Magdi Cristiano Allam e Alessandro Sallusti. Cionondimeno, debbo tornare sull’argomento perché la figura di Rula affiora e ascende come magniloquente compendio di tutto ciò che abbiamo trattato di recente, dal razzismo antirazzista, passando per l’elogio della discriminazione… sino alle nevrosi sottoculturali delle beghine liberal-borghesi di mercoledì scorso. In particolare, vorrei portare l’attenzione del lettore su di un’antinomia lubrica eppure madornale, capace di strappare la maschera dal grugno della feroce giulleria on air.

 

 

Ciò che sfugge quasi universalmente – a chi ne detesta i lazzi come a chi ne ammira la caparbietà moralizzatrice e forse alla Lebreal stessa – è che questa missionaria dell’emancipazione femminile, questa implacabile antagonista della discriminazione razziale, della xenofobia, dello sciovinismo, trova proscenio precisamente perché è una donna (sessismo), attraente (maschilismo), musulmana (islamofilia), nera (razzismo), vaccinata contro il discernimento (ideologia). Ciò che lei più impetuosamente avversa… determina, fabbrica l’essenza stessa del suo pubblico pontificare. Eppure, tali paradossali prerequisiti passano del tutto inosservati.

 

 

Rula Jebreal è una hostess della Open Society, una locandiera prodotta artificialmente. Creata al configuratore del mainstream, cliccando sulle misure, gli equipaggiamenti e il colore della carrozzeria. Il suo ruolo, parafrasando Minima Moralia, corrisponde esattamente al suo aspetto. Inizialmente si limita alla cerimonia insignificante del benvenuto, durante la quale illustra tutti i comfort della procedura dottrinale amministrata, ma da subito il suo modo di presentarsi è rivelatore: bella, sofisticata, swinging between Oriente e Occidente, alta finanza e cinema indipendente, ma dall’aria perennemente infastidita e contrariata, che si sforza di apparire giovanile, ma è già fanée. Una donna soccorrevole, che tutela gli interessi delle altre donne come degli emarginati, ma che assume nel suo zelo un atteggiamento tetro e minaccioso. Perché dietro la costante e meccanica esortazione a comportarsi civilmente che le esce dalla bocca c’è già il subliminale richiamo alla strapotenza del clan plutocratico che ne ha caricato la molla. Come una marionetta in tailleur, non dando tregua ai sessisti, ai razzisti, agli xenofobi, ai bruti, la paladina del bene diventa messaggera della brutalità della prassi, che – sublime ironia – sfrutta proprio la donna nera per manifestarsi in disguise. E quando si mostra accogliente verso il possibile richiedente asilo nella nazione senza confini del convenzionalismo globale, il suo scopo è fare in modo che il nuovo frequentatore del ricetto non abbia nemmeno la possibilità di cercarsi da solo la branda dove il rullo compressore dell’azienda ideologica passerà impersonalmente su di lui. La sua caritatevole avvenenza è il rovescio della dignità del buttafuori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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