foto stefano craccoÈ tutta questione di… tristezza.

Nel leggere questa notizia, oltre che alla dimensione scientifica della rivelazione, il mio pensiero va, ovviamente, a coloro che si affidano a questa pratica drogante.

Sì, perché prima ancora di ragionare sulla questione della droga, penso sia importante fermare la nostra attenzione su ciò che viene prima della droga, ossia su quali possono essere i pensieri che inducono alcuni esseri umani a dedicare parte della propria vita, quando non tutta, ad una alterazione del proprio stato di coscienza.

Gli stati della nostra coscienza, che in realtà non sono veri e propri stati, perché cambiano continuamente in base ai pensieri che abbiamo e alle azioni che compiamo, rappresentano certamente un campo di indagine molto affascinante. Tutto ciò che riguarda la coscienza, visto che parliamo di una facoltà che riteniamo essere una nostra prerogativa (anche se io ho personalmente qualche dubbio al riguardo…), è l’ultima frontiera per la comprensione del funzionamento mentale.

Ogni cultura, ovunque nel mondo, ha sviluppato e sviluppa strategie di gruppo per alterare, ogni tanto, la propria coscienza, specialmente quella legata alla monotonia della vita quotidiana. Ecco che nascono, riti, cerimonie, l’arte, l’immaginazione, la fantasia, e molte altre situazioni definibili, in senso lato, divertimento, in cui lo sguardo umano dis verte, ossia guarda altrove rispetto alla consuetudine.

La domanda essenziale, nel caso della tossicodipendenza in relazione alla coscienza, è dunque: perché mai le tradizionali forme di alterazione della stessa non sono in questo Occidente sufficienti per “staccare la spina”?

Bene, dal mio punto di vista (e, come sempre, si tratta di una mia interpretazione, secondo le conoscenze scientifiche di cui dispongo), la ragione risiede nel fatto che la nostra vita occidentale è sempre di più una vita trascorsa in una sostanziale solitudine affettiva e cognitiva. Ci si sente non solo soli, ma ci percepiamo isolati dagli altri, sempre più isole circondate da mari profondi e minacciosi, per cui nessuno si impegna a nuotare per raggiungere l’altro. Inoltre ci crediamo artefici solitari persino della propria conoscenza, come se non avessimo più bisogno di grandi maestri, in breve: ognuno di noi si ritiene discepolo di se stesso.

Ecco in quale stato ci troviamo, e molti di noi, giovani e meno giovani.

E penso che i cosiddetti social network non facciano altro che giocare su questa situazione esistenziale, fornendoci la credenza di sentirsi uniti ad ignoti, come se l’amicizia potesse svilupparsi dietro un desktop, senza incontrare la sua sostanza, fatta di corpi, calore, musica e voce.

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