integrazioneÈ tutta questione di… precisione.

La verità è che il mondo sta cambiando. A grandissima velocità. Con un’accelerazione superiore alla nostra capacità mentale di capirla, sopportarla e metabolizzarla. Anche i più recalcitranti vedono che i flussi migratori si trasformano velocemente in nuclei sociali e culturali. Una migrazione solo temporanea, che diventa stanziale e vita nazionale.

In ogni Stato Europeo, almeno in quelli interessati dall’ondata migratoria, si stanno formando nuove collettività culturali. Comunità in pace, non sempre in guerra con gli indigeni europei e che cercano, anche se a fatica, un’integrazione reciproca. E non può essere diversamente. La vita, anche se prevede la morte, è più potente di qualsiasi “fine”. La vita sorpassa e supera qualsiasi difficoltà della vita quotidiana. E quando non vi riesce, ci dispiace,  ma ci adeguiamo al mistero delle cose di questo mondo.

Gli affetti (che accadono spesso malgrado noi) non hanno colore esteriore, mentre colorano gli animi di chi li vive. Lo vediamo tutti i giorni. Andiamo a comperare il pane e ci accorgiamo che, davanti al banco, ci siamo noi ma c’è anche la donna musulmana che indossa il suo chador, l’uomo di colore, il bambino cinese, lo studente Erasmus, e così via.

Siamo di fronte, anzi, siamo immersi, in un naturale scorrere di giornate in cui diventa necessario integrarsi con “i nuovi arrivati”, insegnando anche a loro come inserirsi nella nuova realtà in cui si trovano. La Svezia lo ha apertamente scelto. Lo ha anche fatto in un campo che, per noi mediterranei, è assolutamente minato, ovvero quello dell’educazione sessuale.

L’iniziativa è fortemente lungimirante. Il divario culturale tra la società svedese e quella dei paesi di provenienza degli immigrati si manifesta particolarmente nell’ambito della concezione della donna, e quindi del suo rapporto con l’uomo. In una società in cui sia la femmina che il maschio sono educati e formati all’acquisizione della propria consapevolezza, quindi anche delle proprie prerogative sessuali e comportamentali, è legittimo investire per mantenere il proprio assetto sociale, la propria formazione intellettuale.

Accoglienza sì, ma chi è accolto deve acquisire coscienza di trovarsi in uno Stato in cui gli usi ed i costumi hanno una matrice ed uno sviluppo propri e spesso molto differenti dai suoi. Anche così si può stimolare una pacifica convivenza. Proprio tra esseri umani appartenenti a culture diverse, attraverso l’assimilazione dei valori del Paese di accoglienza. Compresi i valori sessuali, dal momento che i comportamenti che ogni essere umano assume in questo ambito hanno inevitabili ricadute sull’integrità psicofisica altrui, sulla cultura in generale.

Non si tratta dunque di nazionalismo, ma di una politica di prevenzione.

Anche se nel nostro immaginario collettivo la Svezia ha sempre rappresentato il luogo della grande emancipazione e libertà di costumi; anche se il messaggio di cui trattiamo è costruito in una forma comunicativa “soft”, insegnare ad un musulmano il “sesso alla svedese” non significa prospettargli pratiche piacevoli. Al contrario. Significa comunicargli ufficialmente l’intollerabilità, da parte dello Stato, di atteggiamenti che non considerino il rispetto della donna (o, più in generale, del partner) punto qualificante del rapporto sessuale.

Significa demarcare il limite tra consenso e prevaricazione, tra legalmente ammesso e punito.

Ecco perché, nel valutare questa iniziativa, direi che potremmo lasciar fuori il moralismo che fa molto vintage e plaudere a quella che è una vera e propria forma di protezione culturale e giuridica. In effetti, trovo encomiabile che si educhino gli ospiti stranieri, futuri e probabili cittadini svedesi, all’esercizio di una sessualità che tende a garantire rispetto, attenzione e stima agli esseri umani.

Soprattutto nella sessualità, direi.

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