L'Unità

È tutta questione di… Oscar.

Con la stessa naturalezza con cui, in un salone da parrucchiere (magari uno di quelli che dirigeva all’inizio della sua carriera), si offre una rivista alle clienti in attesa, il signor Dario Giulio Alessandro Gabriele Mora, in arte Lele Mora, ha offerto al pubblico la notiziola del suo imminente arrivo a “L’Unità” come direttore.

Niente di meno! E non solo.

A suo dire, tale carica gli sarebbe stata offerta da uno dei due investitori che, sempre a suo dire, ha già acquistato la testata giornalistica. L’editore del quotidiano, la Piesse, ha smentito e minacciato querela. Querela di cui, pur tuttavia, ad oggi non si ha notizia.

Nel momento in cui scrivo non sappiamo né se la notizia lanciata da Mora sia vera oppure un fake, né quale sorte attenda la direzione di questo quotidiano. Ma v’è un fatto certo e cioè che Lele Mora ha seriamente visto se stesso come il novello direttore de L’Unità. In altre parole, l’ex agente dei vip ha ritenuto di avere la caratura necessaria a dirigere il giornale fondato da Antonio Gramsci.

Correva l’anno 1924, quando Gramsci fondò L’Unità. Egli era uno dei padri costituenti il Partito Comunista e l’Unità è stato per lungo tempo, l’organo di stampa di quel partito. Ma Gramsci è stato anche altro: filosofo, letterato, politologo, raffinatissimo linguista e critico letterario. Un uomo al quale, al di là delle mie personali convinzioni anticomuniste, non posso non riconoscere una levatura etica e morale raramente raggiungibile, perché chi è disposto a subire il carcere e morire per le proprie convinzioni appartiene ad una dimensione qualitativa superiore. Senza ombra di dubbio, per me.

Il cosiddetto Tribunale Speciale Fascista istituito da Mussolini non voleva privare Gramsci della sua libertà fisica, e non temeva certo un tubercolotico con la spina dorsale offesa dall’infanzia. Ciò che interessava frenare era ben altro. “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”. Così, nel chiedere la condanna di Gramsci, conclude la propria requisitoria il P.M. Michele Isgrò. Parole su cui riflettere, perché icasticamente rappresentative del fatto che la grandezza intellettiva ed intellettuale di Gramsci costituiva un pericolo per il Governo.

Passano soltanto 94 anni e chi pensa di potersi sedere al posto che fu di Gramsci ? Lele Mora.

Nato come direttore di saloni per donne da acconciare, diventa manager di numerosi vip per poi coronare la propria carriera con una lunga serie di condanne per spaccio di droga, evasione fiscale, favoreggiamento della prostituzione ed un patteggiamento per bancarotta fraudolenta. Intendiamoci bene. Una volta pagati i propri debiti, qualunque uomo ha diritto a riabilitarsi e vedersi riconosciuta la propria riabilitazione altrimenti cosa ne sarebbe della funzione rieducativa della pena? Ma riabilitarsi non significa poter ambire a ciò per cui occorre un passato specchiato. Ed è questo che colpisce di Lele Mora, la nonchalance con cui ha pensato di poter sedere al posto di Antonio Gramsci. Un filosofo che ha pagato con la sua vita, una lotta per la libertà delle opinioni e della manifestazione del pensiero, mentre Mora ha pagato la propria libertà di spacciare droga.

Gramsci ha lottato per il riconoscimento della dignità e del valore della donna nella società, Mora ha favorito il mercimonio del corpo femminile ovvero una delle peggiori umiliazioni femminili che si possano concepire.

Portatore di handicap, perennemente malato ed in precarie condizioni economiche, Gramsci ha costruito un pensiero (condivisibile o meno, ma non è questo il punto) che è stato uno dei capisaldi della nostra storia repubblicana, con cui ogni intellettuale del Novecento e del nostro secolo si è confrontato e continua a confrontarsi. Mora conta un’evasione fiscale milionaria.

Dunque, mi domando se veramente non resti che prendere atto di come nella nostra epoca tutto sia sdoganato, tutto sia “memory free”, e di quanto le persone siano fungibili l’una rispetto all’altra. Ma siamo così certi che quell’aura di empatia social, che tutto scusa e tutto dimentica, consenta di tornare periodicamente vergini facendoci pensare ad oltranza “yes, I can”? C’è un pudore nel misurarsi, oppure l’asticella del “consentito” si è talmente elevata da essersi rarefatta e poi perduta? Certo, saper glissare su se stessi è una grandissima risorsa per la propria autoconservazione ed autostima, e l’anestesia mnemonica è un toccasana per l’integrità della specie.

Ma è giusto così, oppure sarebbe il caso di recuperare un po’ di realismo, solo quel tanto che basta a vederci “re nudi”, e non vestiti di virtuale broccato?

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