Papa ed Emirati Arabi UnitiTutta questione di… incontro.

In questi giorni il Pontefice ha compiuto una visita pastorale negli Emirati Arabi e molte persone, sia giornalisti che coloro i quali sono impegnati sul fronte umanitario, si sono chiesti se la pace ed il dialogo valgano il mancato affondo diretto, da parte del Papa, sui diritti umani compromessi, se non annichiliti, da parte degli Emirati.

Infatti, Papa Francesco non ha esplicitamente speso parole sulla guerra nello Yemen, sul necessario riconoscimento della parità tra uomo e donna, sui diritti di quest’ultima annientata dal regime arabo, così come non ha fatto cenno all’uccisione del giornalista Jamal Kashoggi. In buona sostanza, ha riproposto, negli Emirati, quella discrezione dialettica che aveva giù usato in Birmania, in merito alla questione dei Rohingya.

Abituati alle sue vibranti stoccate, e che non lasciano spazio all’immaginazione o all’equivoco, abbiamo visto e sentito il Vescovo di Roma limitarsi a pronunciare queste parole dinanzi ai settecento leader di diverse religioni, presenti al Founder’s Memorial, tenutosi ad Abu Dhabi: “Nel nome di Dio Creatore, va senza esitazione condannata ogni forma di violenza, perché è una grave profanazione del nome di Dio utilizzarlo per giustificare l’odio e la violenza contro il fratello. Non esiste violenza che possa essere religiosamente giustificata”. Punto.

Ed allora, da studiosi della natura umana, ancor prima che da cattolici, ci chiediamo quale sia il valore del silenzio utilizzato, pensato e riprodotto nell’antro di un lupo al quale l’istinto vorrebbe gridare ben altri comportamenti. E di certo non così ambigui.

Questo Papa ripete molto spesso le parole “ponte”, “dialogo”, “rete”.

Si è già recato in Egitto, Turchia, Azerbaigian, Bangladesh ed il mese prossimo volerà in Marocco. In attuazione pratica dei concetti espressi da questi vocaboli, Egli ha colto l’occasione dell’ottavo centenario dell’incontro tra S. Francesco d’Assisi ed il sultano Malik-al-Kamil, per raggiungere gli Emirati e compiere quel che aveva anticipato sul suo account twitter@pontifex: “Vado come fratello, per scrivere insieme una pagina di dialogo”.

Di questo tweet colpisce ciò che non si legge.

Non si legge: “Vado come fratello per parlare all’Islam”. No, non v’è alcuna autoreferenzialità. Al contrario, il Papa si propone come fraterno coautore, con l’islam, di un dialogo. E non di un dialogo di grandissimo respiro, bensì formato da una sola “pagina”. In altre parole, il Vescovo di Roma sta dicendo che si tratta di un avvicinamento, insufficiente, da solo, a far penetrare il germe della cristianità, ma essenziale perché, in unione ad altri momenti di incontro tra le due religioni, sia possibile costruire un dialogo fatto di “pagine”. Non si deve dimenticare che Francesco proviene dalla Compagnia di Gesù, nel cui ambito e specialmente in tema di apostolato missionario, si attribuisce risalto al tentativo di incarnare (nel senso letterale del termine) l’annuncio del messaggio di Cristo, nelle diverse culture da evangelizzare.

Si tratta di un processo dialettico che prende il nome di “inculturazione” e che troviamo bene spiegato nell’Enciclica “Slavorum Apostoli”, di Giovanni Paolo II, ma già noto e definito da Papa Gregorio Magno intorno all’anno 600 d.C.. San Giovanni Paolo II la definisce: “l’incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone ed insieme l’introduzione di esse nella vita della Chiesa”.

In altre parole, l’”inculturazione” si pone come due vettori consecutivi: da un lato una cultura accoglie il messaggio cristiano al livello più profondo del proprio specifico ed unico substrato psicologico collettivo e, dall’altro lato, quella stessa cultura si converte e propone una versione inedita del Cristianesimo, all’interno della Chiesa. Un concetto, quello di ”inculturazione” che si usa anche in ambito antropologico culturale, per indicare la trasmissione, da una generazione all’altra, della cultura del gruppo sociale di appartenenza. Si tratta di un processo il cui principale cardine è la socializzazione del singolo, che apprende il linguaggio, riceve un’educazione nel suo nucleo di appartenenza, imita i suoi simili adulti, assimila e trasmette le componenti della cultura del suo gruppo.

Come nella visione cristiana, anche in quella antropologica, l’incontro tra i singoli, la collettività (che è sempre altro, rispetto al singolo) e l’incorporazione del singolo all’altro, avviene per “pagine”, per frammenti dialogici.

Ma anche per silenzi.

Silenzi che non significano mancanza di parole espresse, ma momenti di “tradizione” (nel senso latino del vocabolo) concettuale e per fatti esaurienti. Una sorta di omissione che, proprio in quanto tale, si fa, ad un tempo, significante e significato. Di quelli che, muti, tracciano solchi profondi nella memoria.

Un unico appunto, mi sento di fare all’utilizzo, errato, del termine inculturazione, da parte della dottrina sociale della Chiesa: sarebbe meglio, utilizzare il termine “acculturazione”, perché si tratta di un processo di incontro-scontro fra due culture diverse, in questo caso di tipo religioso, l’una cristiano-cattolica e l’altra islamica. E tutti noi stiamo vivendo, in Europa e altrove nel mondo, questo contatto, anche con sofferenze, morti e feriti.

Ecco perché, proprio sulla base di questo mio appunto scientifico, direi che il valore di questo atto pubblico da parte del pontefice è oltremodo significativo.

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