L’ho già detto, il modo migliore per capire cos’è un “classico” (o almeno un “titolo da catalogo”) è sottoporsi a un trasloco. In quel caso sarà lo spazio a decidere cosa lasciare cadere in uno scatolone e cosa conservare nella nuova (ma più piccola) libreria. Di fronte alla necessità rappresentata dalla mancanza di spazio il nostro senso critico si acuirà e saremo più decisi su cosa salvare e cosa condannare al buio di uno scatolone sigillato. Questo è un sistema che può essere valido anche quando non dobbiamo fare un trasloco, ma semplicemente dobbiamo decidere se la novità che abbiamo letto vada posizionata su uno scaffale della nostra biblioteca di casa oppure no. E chiudendo un libro mi faccio questa domanda: “Tra dieci/quindici anni sarà possibile riprenderlo in mano? Potrò affidarne la lettura a qualcuno la cui formazione mi è cara?” Forte di questo sistema non rinuncio a navigare nella produzione contemporanea, consapevole che anche da lì si possa capire qualcosa del mondo che sta fuori di noi e di quello – a volte anche più intricato – che si nasconde al nostro interno.

Ho appena finito di leggere le ultime pagine di La pelle dell’orso di Matteo Righetto (Guanda) e sono già convinto che questo romanzo, ambientato nei primi giorni di ottobre del ’63 tra i monti delle Dolomiti, resisterà ai prossimi traslochi e magari riuscirò a farlo leggere a qualcuno che frequenta la mia biblioteca casalinga. Per quali motivi? Semplice. E’ una storia quasi senza tempo, una “favola moderna” (come si usa dire oggi). Righetto mette sulla scena un bambino (orfano di madre), suo padre, la splendida natura dolomitica e la Storia, quella italiana,  nata dalla cronaca, dura e violenta, che irrompe sulla scena veloce e drammatica come una frana  (la tragedia del Vajont), che finisce per mettere il lutto attorno al braccio di tutti noi.

Una tragedia che si sovrappone all’avventura di Domenico, 12 anni, e della caccia a un orso più mitico che reale cui il padre lo coinvolge. Un’impresa che trasformerà la loro vita e il loro rapporto e che farà uscire il dodicenne dal torpore dell’infanzia per gettarlo nella consapevolezza di un’improvvisa maturità. In questo racconto (pardon, “favola senza tempo”) echeggiano le voci di tanti grandi autori. Perché Righetto, evidentemente, prima di divenire uno scrittore di razza è stato un sensibile lettore. Mark Twain, Jack London, Joseph Conrad sono riconoscibili tra le pieghe del romanzo. E occhieggiano anche i numi tutelari di quella regione (il Veneto) che fa da sfondo alla storia e che è coltura madre per lo stesso autore. Parlando di boschi e favole non può non venire in mente Dino Buzzati. E poi l’intelligente sensibilità con cui vengono descritte le paure e le ansie dell’adolescenza fanno pensare a una proficua lettura di Parise. Ma anche il Cielo è rosso di Giuseppe Berto potrebbe essere arruolato nella bibliografia ideale di questo romanzo.

E finirò per mettere questo bellissimo libro proprio sul loro scaffale.

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