Si può misurare l’immortalità dei libri dalla capacità di attrarre fan irriducibili? E di indurre, tra l’altro, questi ultimi a seguire cerimoniali e riti assolutamente fuori dal tempo solo per il piacere di ricrearne le atmosfere? A mio modesto avviso si può. E indubbiamente il Bloomsday è il paradigma di questo tipo di immortalità. Solo per chi non sapesse cos’è il Bloomsday ecco una sintetica spiegazione: è una commemorazione che si tiene ogni 16 giugno a Dublino (e in altre parti del mondo) per celebrare James Joyce e rievocare gli eventi dell’Ulisse, il suo romanzo più celebre che si svolge in una sola giornata, il 16 giugno appunto del 1904, nella capitale irlandese. Il nome (Bloomsday) deriva dal cognome del protagonista del romanzo, Leopold Bloom. Inoltre, il 16 giugno è il giorno in cui Joyce e quella che sarà la sua compagna per tutta la vita, Nora Barnacle, si dettero il primo appuntamento. La prima edizione del Bloomsday si è svolta nel 1950, in occasione del trentennale della pubblicazione dell’Ulisse (del quale, tra l’altro, da qualche mese è in libreria una nuova traduzione di Gianni Celati per i tipi di Einaudi). Questa festa laica è diventata nel corso degli anni un appuntamento tradizionale soprattutto nelle città di Joyce (Ginevra, Parigi, Trieste, Londra e Dublino). E chi accorre a parteciparvi si eccita soprattutto all’idea di mangiare le stesse cose che mangiava Leopold Bloom e di vestirsi come i suoi contemporanei irlandesi. Roba da fanatici, insomma. E da monomaniaci (molto simili, peraltro, al fenomeno di origine giapponese dei cosplay, cioè di coloro che si vestono come i loro personaggi di fumetti preferiti). In America, per esempio, è sempre stato di moda fare feste di compleanno in costumi che ricreano le atmosfere del Grande Gatsby. Per celebrare il genio di  Jane Austen, della quale abbiamo già avuto modo di parlare in questo blog, nascono come funghi un po’ dovunque club di lettura e iniziative dove chi partecipa ha la (insana) ambizione di rivivere non solo le atmosfere di un’epoca ormai archiviata ma anche gli stessi rovelli esistenziali, sociali e sentimentali dei quali l’autrice inglese ha riempito la testa dei suoi personaggi. Dei cosiddetti “campi hobbit”, tanto popolari tra gli anni Settanta e Ottanta, si è già detto molto, anche se sul loro debito nei confronti di Tolkien si potrebbe ancora parlare. L’ultimo “classico” a suscitare le fantasie dei suoi fan è in libreria da nemmeno quattro lustri. Eppure le vendite di questo libro (in Italia pubblicato da Salani) hanno raggiunto vette finora inesplorate. Stiamo parlando di Harry Potter, del maghetto nato dalla penna e dalla fantasia della britannica Joanne Kathleen Rowling. Dal 1997 a oggi i vari titoli di questa popolarissima saga hanno venduto oltre 450 milioni di copie. Segno che le atmosfere assolutamente originali di questa Inghilterra fuori dal tempo, dove un manipolo di maghetti in erba viene educato a sconfiggere il Male sotto qualsiasi forma si nasconda, sono capaci di attrarre schiere affollatissime di lettori (giovani e non). E’ ovvio che un simile successo avrebbe portato col tempo al proliferare di festival, fiere e kermesse dove i fan sono liberi di scatenare tutto il proprio amore per il maghetto e la propria indotta malinconia verso suggestioni e atmosfere assolutamente irreali. A Pisa, per esempio, dal 28 al 31 agosto sono attesi oltre 400 partecipanti all’Harry Potter never ends, quarto raduno nazionale, organizzato dall’omonima associazione. In questi quattro giorni gli iscritti potranno  partecipare a lezioni di pozioni e arti magiche tenute da professori universitari, giocare a quiddich (il 29 pomeriggio nel Vallo di San Gallo al giardino Scotto), assaggiare “burro-birra” e farsi confezionare una bacchetta magica su misura. Il filo conduttore dell’evento – spiegano gli organizzatori – sarà la soluzione di un mistero legato al tempo e ai viaggi nel tempo. Molti i luoghi cittadini coinvolti, dal giardino Scotto alla stazione Leopolda fino a Corso Italia. Può bastare questo per dire che la saga di Harry Potter entrerà di diritto nella schiera dei classici per l’infanzia? Secondo me questo è una delle tante spie che il maghetto è e sarà  sempre capace di resistere alla dura selezione del tempo. Ma ovviamente non il solo. Le qualità letterarie del romanzo, innanzitutto. E quella naturale indole di modellare l’immaginario della preadolescenza con un giusto mix di sogni e paure da esorcizzare ne fanno un titolo in grado di far bella figura nello scaffale dei grandi classici per l’infanzia. E’ ovvio che se vediamo un gruppo di “fanatici” giocare a quiddich nei giardini pubblici di Pisa, possiamo semplicemente osservare che il successo del maghetto inglese è diventato davvero planetario.

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