Parafrasando Severino Boezio, si potrebbe scrivere un bel manuale sulla letteratura come consolazione. E in questo libro troverebbe sicuramente un posto di primo piano Charlotte Brönte. Non solo per cosa hanno rappresentato i suoi romanzi, ma per l’opinione che questa scrittrice (morta prematuramente a 39 anni nel 1855) professava circa la letteratura. Come consolazione e come gioco, visto che la sua carriera di scrittrice è iniziata per vincere la noia – insieme con le sorelle e il fratello – di giornate interminabili in una casa immersa nella brughiera del Lancashire, dove il padre (un pastore protestante) era titolare di una parrocchia. Insomma la letteratura a casa Brönte era proprio un’evasione e un passatempo ricco di storie immaginifiche con un bel happy end consolatorio.

Poi le strade delle ragazze si divisero. Charlotte ed Emily (quella di Cime tempestose) attraversarono la Manica e si stabilirono a Bruxelles per studiare il francese. Charlotte lì lavorò anche come governante in un collegio femminile e proprio questa porzione della sua vita fa da coltura per la genesi del suo romanzo più sorprendente: Villette. Più sorprendente per un paio di ottimi motivi. Il primo riguarda la sua maturità stilistica. Si vede che l’autrice ormai ha accumulato esperienza e dolore, frustrazioni e letture. Lo si vede soprattutto dal modo come descrive i personaggi. Con una lucidità e profondità da far invidia anche a Marcel Proust. Il secondo motivo risiede nel fatto che questo romanzo rovescia la funzione consolatoria della letteratura. Non c’è un lieto fine e i personaggi positivi, quelli che il lettore di buon senso finirà per amare, hanno come unica via d’uscita l’accettazione di un destino di rinunce.

Il romanzo, stranamente, non è tra i più conosciuti della Brönte (ben altra fama ha, per esempio, Jane Eyre). Eppure è sicuramente la classica prova di maturità dell’autrice, dove la finzione e l’autobiografia si mescolano in maniera elegante e armonica.

Da noi è stato pubblicato nel 1996 da Fazi. E da allora il titolo ha avuto alcune ristampe. L’ultima edizione è di poche settimane fa e sfrutta ancora l’ottima traduzione di Simone Caltabellotta e la prefazione di Antonella Anedda. Quest’ultima, a proposito di Villette, parla di una “luce etica” che fa di questo romanzo  non solo un testamento (letterario) ma anche una “rivelazione”.

Come assaggio di quanto può trovare il lettore fornirò soltanto un passaggio dove la giovane governante inglese Lucy Snow parla dell’atmosfera religiosa che si respira nella scuola di Villette. “ Era uno strano, capriccioso, rumoroso piccolo universo questa scuola: ci si dava molta pena per nascondere le catene sotto i fiori: una sottile essenza di cattolicesimo pervadeva ogni affare, un’ampia indulgenza sensuale (per così dire) era concessa come contrappeso al geloso freno spirituale. Ogni animo veniva coltivato nella schiavitù, ma, per impedire che il pensiero si soffermasse su questo, si afferrava, sfruttandolo al massimo, ogni pretesto per concedere una ricreazione fisica. Qui, come altrove, la Chiesa lottava per fare crescere i propri figli robusti nel corpo e deboli nell’anima; grassi, coloriti, sani, gioiosi, ma ignoranti, incapaci di pensare e d’interrogare. Mangiate, bevete e vivete!, essa dice. Badate ai vostri corpi; ma lasciate le anime a me. Io ho in mano la loro cura, guido io il loro corso: garantisco io per il loro destino finale. Un discorso in cui ogni vero cattolico si considera in profitto”.

Ce n’è abbastanza, credo, per dimostrare la sapienza letteraria e la profondità dello sguardo della Brönte. Buona lettura.

 

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