“La letteratura era un campo di sterminio; nessuna persona perbene aveva mai preso in mano la penna. Lo scrittore interpretato da Jack Nicholson in Shining costituiva una buona approssimazione della realtà”. A pagina 43 dell’ultimo romanzo di Hanif Kureishi (L’ultima parola, Bompiani) ti imbatti in questa sentenza. Non prima di esserti sorbito i dettagli scabrosi della vita di Ted Hughes, P.G. Wodehouse, John Cheever e Philip Larkin. Buttati lì come esempio di quanto dovrebbe sempre contenere la biografia di un mostro sacro delle Patrie Lettere. Il romanzo di Kureishi racconta d’altronde del difficile rapporto tra uno scrittore (già approdato nell’arbasiniana categoria del “venerato maestro”) e il suo giovane e rampante biografo. Una storia condita con sapienza dai più tradizionali (e sapidi) ingredienti: rapporti familiari, psicanalisi, ricchezza, povertà, ambizione, riscatto sociale e ovviamente sesso. Ingredienti, però, che fanno la fortuna e la felicità dei best-seller ma che non bastano per farti assurgere alla categoria di long-seller o di titolo di catalogo. Il libro di Kureishi, però, a quest’ultima categoria appartiene senz’altro. Chi lo prenderà in mano tra vent’anni, infatti, potrà certo divertirsi e imparare molto delle relazioni tra gioventù e vecchiaia, tra sentimento amoroso e gelosia. Però apprezzerà il piccolo capolavoro di un romanzo che mette sulla graticola il lavoro proprio dello scrittore e che quindi, in ultima analisi, affronta uno dei nodi centrali della stessa letteratura: vale a dire il rapporto tra vita e arte.

Il “venerato maestro” Mamoon (di origine indiana ma inglese di formazione) ha poi molto da farsi perdonare. Proprio come i “maestri” citati prima: tante storie di sesso, rapporti ambigui con mogli e amanti. E una superficialità a dir poco sospetta. D’altronde è lo stesso Mamoon a confessarlo “Il romanziere – dice – è un briccone, un imbroglione, un truffatore. Ma più di ogni altra cosa è un seduttore”. Ad accorgersi di quanto è vera questa boutade è il giovane biografo chiamato a ridare lustro con il suo lavoro a un nome da tempo in crisi di creatività.

Ed è nel braccio di ferro tra i due, è nell’omertà del primo e nella corriva invadenza del secondo, che si sviluppa il tema centrale del libro che sembra rispolverare con lucidità e profitto il tema già affrontato con grandezza encomiabile da Luigi Pirandello nel celeberrimo Il fu Mattia Pascal, dove si legge l’altrettanto famosa sentenza:  “La vita o la si vive o la si scrive, io non l’ho mai vissuta se non scrivendola”. Il giovane Harry vuole sapere. Confronta dati, studia vecchie lettere e documenti, interroga i testimoni. Ma il passato di una persona – come ben spiega Kureishi – “è un fiume, non una statua”. I ricordi non sono immobili: si muovono e si evolvono. Soprattutto nella testa di uno scrittore che ha sacrificato tutto per la scrittura. Accettando di vivere ai margini, confinato in uno studio, servito e riverito da ancelle divenute nel tempo amanti o mogli. E così il racconto di una vita diventa il racconto della finzione letteraria, della funzione del romanziere. “Non c’è nulla che confonda quanto la chiarezza – dice il “venerato maestro” al giovane biografo assetato di informazioni –. Le storie migliori sono quelle aperte, che non si capiscono fino in fondo”.  Mamoon nel giovane Harry non vede soltanto il suo agiografo ma anche un inesperto scrittore da indirizzare e ammaestrare. “Il romanzo è contaminazione – lo rassicura –. Il romanzo coglie le complicazioni”. E poi ancora si sfoga ricordando che : “la gente viene da me e mi chiede verità universali, ma questo è l’indirizzo sbagliato. Qui troverete solo domande universali, quelle da cui nasce la letteratura”.

Alla fine il lettore rimane con un pugno di mosche in mano. Della vita di Mamoon nelle pagine del romanzo di Kureishi c’è poco o niente. Qualche virtuosismo erotico, tanto dispotismo caratteriale e nulla più. In compenso il bravo scrittore anglo-pakistano (già autore di piccoli capolavori come Nell’intimità e Il Buddha delle periferie) ci pone di fronte al più classico dei dubbi sulla letteratura e sulla vita degli scrittori. Un dubbio che proprio pochi giorni fa uno dei nostri autori (Aldo Busi) ha sciolto alla sua maniera nel corso di un’intervista di Cristina Taglietti su La Lettura. “Pur di scrivere – spiega l’autore di Seminario sulla gioventù (Adelphi) e dell’ultimo El especialista de Barcelona (Dalai editore) – mi sono ridotto a vivere. Altrimenti che racconti? Anche se la scrittura non è la sublimazione di niente”. Per ribaltare Pirandello c’era bisogno solo di uno scrittore di razza, quale Busi ha ampiamente dimostrato di essere sia per indipendenza intellettuale che per vocazione letteraria.

Busi insomma non ha bisogno di fingersi “rubastorie” (come direbbe Joyce), ma il mondo è pieno di autori simili a Mamoon. E fa bene Kureishi ad offrire al lettore questo tema. Perché di Busi ce ne sono pochini in giro mentre sono in molti a pensare – come ricorda Kureishi – che “l’originalità è l’arte di rubare le cose giuste”.

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