Dietro i grandi personaggi della letteratura si celano sempre persone reali. Gli scrittori, anche quelli che firmano capolavori immortali, tendono a ritrarre piuttosto che a inventare e in effetti, come disse Joyce, il genio è colui che meglio di altri sa rubare. O – per essere meno brutali – colui che sa fare propria l’invenzione di altri. E’ una considerazione, questa, che ritorna ciclicamente. Ogni volta, almeno, che le cronache scoprono l’esistenza di una persona reale dietro un personaggio della fantasia letteraria. L’ultimo caso riguarda il celeberrimo dottor Watson che – secondo Arthur Conan Doyle (1859-1930)  – doveva servire da spalla per le indagini e le argomentazioni del geniale Sherlock Holmes.

Insomma il dottor Watson aveva un modello di riferimento nella vita reale. A ispirare il personaggio è stato un osteopata scozzese che prima di diventare medico affermato era compagno di studi e di bevute di Doyle  all’università di Edimburgo. Il personaggio compare già in uno  dei primi romanzi (Uno studio rosso del 1887) dell’inventore del giallo “scientifico”.

Durante l’annuale meeting della Scottish Osteopathic Society,  Tim Baker ha infatti sostenuto che il dottor Watson altri non sarebbe che  William Smith, originario di Aberdeen, pioniere dell’osteopatia  britannica e compagno di studi di Doyle. Baker ha poi ricordato un articolo di un giornale americano del ’38 dove il figlio di William Smith confermava questa tesi offrendo anche ulteriori dettagli del rapporto di amicizia tra suo padre e lo scrittore. Non solo i due studiarono insieme. Ma lo fecero sotto la guida di Joseph Bell, il docente di medicina cui lo scrittore deve molto proprio per essere involontariamente servito da modello per il geniale Holmes.  Bell non solo aveva delle eccezionali doti di osservazione ma era spesso chiamato dagli investigatori, dalla polizia e dai giudizi per perizie su difficili casi di assassinio. E non soltanto a Edimburgo ma anche dall’altra parte dell’oceano.

Di sicuro un personaggio come il dottor Bell andrebbe studiato a fondo. Quando morì (nell’ottobre del 1911) l’Edinburgh Medical Journal lo ricordò ampiamente come uno dei più brillanti chirurghi della sua generazione (perse soltanto tre pazienti su un totale di  70 operati) e sfruttava a fondo la sua capacità di osservazione per le analisi dei pazienti, valutando nella giusta maniera anche dettagli spesso trascurati dagli altri. Di lui il giornale ricordava anche un’erudizione fuori dal comune e il vezzo di parlare per epigrammi.

Se non è un personaggio questo! Anzi proprio pensando a Bell torna alla mente un aforisma attribuito ad Arthur Conan Doyle. “Il mediocre non sa riconoscere niente di più alto di se stesso. Mentre solo l’uomo di talento sa fiutare le capacità di un genio”.

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