Ti capita per mano, per puro caso, un piccolo gioiello. Lo leggi e ne rimani travolto. Ringrazi il caso e pensi che proprio così si incontrano i capolavori letterari. Inaspettatamente. E il loro messaggio diviene ancor più forte. Ancor più vigoroso. Nel mio caso il testo in questione è E non disse nemmeno una parola di Heinrich Boll, che Mondadori ha da poco ristampato nella collana degli Oscar. Si tratta, in verità, della vecchia traduzione Italo Alighiero Chiusano (che firma anche l’introduzione) che uscì nel 1955. A soli due anni di distanza dalla prima comparsa in Germania. La storia è quella di un povero reduce che per sbarcare il lunario lavora come centralinista all’arcivescovado della non nominata (ma riconoscibile) Colonia. Ha dovuto abbandonare la moglie e i suoi tre figli perché non riesce a smettere di bere e soprattutto non riesce a controllare i suoi impulsi violenti (nei confronti soprattutto dei figli ancora piccoli). Però Fred Bogner ama profondamente sua moglie Kate. Ed è questo che Boll vuole mettere in evidenza. E per farlo sceglie una giornata qualsiasi del suo calvario metropolitano, raccontando tutti i mezzi, gli espedienti e i sacrifici che Fred compie per incontrare sua moglie e stare un po’ in intimità con lei. Il romanzo è stato accolto trionfalmente fin da subito e non solo in Germania. In buona sostanza perché rispetta il canone novecentesco più alto e raffinato che rimanda direttamente all’Ulisse di Joyce e perché in appena 150 pagine tiene alta la tensione del lettore con una costruzione narrativa incalzante dove sciogliere il nodo dell’amore matrimoniale declinato in una maniera non convenzionale ma altrettanto lirica. Quest’apparente “non storia” di anti-eroi del dopoguerra (“Non ho mai parlato di uomini in gamba, perché gli uomini in gamba li ho sempre odiati, non riesco nemmeno a immaginarmi niente di più noioso di un uomo in gamba”) offre il destro a Boll di descrivere con pietosa partecipazione il triste scenario del dopoguerra nella Germania lacerata dalla guerra. Una Germania che, però, si fa forza e – grazie anche agli aiuti americani – prova rialzarsi. L’autore non prende posizione ma descrive il tutto come da una prospettiva distante che gli offre uno sguardo più lucido e profondo. E così una sottile vena di corrosiva ironia finisce per colorare le descrizioni del fermento produttivo, della rinata religione del lavoro, del denaro e soprattutto della religione che, nella Colonia dei primi anni Cinquanta come in gran parte della Germania post-bellica, ha avuto un ruolo determinante. Dove il consumismo (di impronta americana) si fonde con l’anima profondamente religiosa dei tedeschi. Insomma sono incappato in un piccolo gioiello che – colpevolmente – non conoscevo (pur avendo letto e apprezzato altre prove di Boll come Opinioni di un clown, Foto di gruppo con signora e L’onore perduto di Katharina Blum). Un piccolo gioiello dove si finisce per parlare di tutto e che offre diverse chiavi di lettura, qualità forse essenziale dei classici di ogni tempo. Un libro che in momenti come quello che ci troviamo a vivere torna di estrema attualità. Soprattutto perché la guerra (passata nel 1953 da pochi anni) resta ben vivida nel ricordo dei personaggi di Boll. E il suo Fred Bogner, che in tempo di guerra ovviamente faceva il telefonista, può offrire di quel tragico momento una descrizione molto originale ma che non toglie niente del peso tragico degli effetti bellici. “Non mi hai mai parlato molto, tu, della guerra”. “Non ne vale la pena, mia cara. Pensa solo, tutto il santo giorno al telefono, a non sentir quasi mai altro che la voce di ufficiali superiori. Non puoi immaginare quanto siano scemi gli ufficiali superiori al telefono. Il loro vocabolario è ristrettissimo, lo calcolo sulle centoventi, centoquaranta parole. Troppo poco per sei anni di guerra. Ogni giorno otto ore al telefono: rapporto… rinforzi… rinforzi… rapporto… rinforzi… ultima goccia di sangue… ordine… relazione… rinforzi… ultima goccia di sangue… resistere. Furher… non mollare…”

Forse noi non siamo alle porte di una guerra. Forse la situazione non ha il tragico colore degli anni Cinquanta del cosiddetto “secolo breve”, però la stupidità umana, la miopia ideologica e il furore distruttivo di allora stanno riemergendo. Ed è in pagine come queste che si può trovare il giusto antidoto.

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