“Cos’era l’Unione Sovietica?” potrebbe sembrare una domanda oziosa ma non lo è. Nemmeno se a porsi la questione è un russo. Anzi forse sono proprio le nuove generazioni nate e vissute laggiù sotto la ritrovata democrazia e il rinato mercato che hanno meno indizi sul loro non così lontano passato. E’ questa tesi (confortata da innumerevoli prove oggettive) che ci offre lo scrittore Gary Shteyngart nel suo ennesimo romanzo autobiografico. Quest’ultimo però (intitolato Mi chiamavano piccolo fallimento e come gli altri pubblicato da Guanda) è meno romanzo degli altri e molto più “autobiografico”. Come già sanno i suoi affezionati lettori italiani Gary in verità si chiamerebbe Igor e il suo cognome russo è davvero complicato da trascrivere. E’ nato a Leningrado nel 1972, quindi – com’è solito ripetere lo stesso Gary – da “genitori sovietici”. La sua famiglia, di origine ebraica, riesce a ottenere nel 1979 il visto per l’espatrio. E la sua formazione e crescita umana, spirituale e culturale avviene quindi nell’ombelico del Nuovo Mondo cioè a New York. E non solo la sua. Anche i genitori (con maggiore resistenza rispetto a un ragazzino di sette anni) finiscono per adottare in pieno l’american way of life. E il cambiamento è così radicale che l’autore vuole tornare indietro. Vuole percorrere à rebours il tracciato. Non solo per capire meglio il passato dei suoi genitori e della sua famiglia ma per inquadrare meglio anche il suo presente.
Alla fine il suo occhio straniato e “vergine” compie il miracolo di offrirci davvero un volto e una visione inedita della Russia di oggi. Già solo per questo motivo varrebbe il prezzo di copertina. Poi c’è di più. Il libro appartiene a una categoria molto frequentata nella tradizione letteraria. Ovvero quell’insidioso mix fatto di autobiografia e romanzo di formazione. In buona sostanza Gary ci spiega per filo e per segno com’è diventato scrittore. E non lo fa sgranando il rosario della sua formazione letteraria (quelle interessa poco o niente lui, e niente del tutto noi). Lo fa sciorinando le tappe della sua vita come autentiche pietre miliari di un’esistenza unica e inimitabile che va condivisa perché è assolutamente identica alle vite uniche e inimitabili degli altri. La diversità non va nascosta o dissimulata. Bensì va esaltata anche a costo di farne “carne di porco” per un cabaret letterario affatto irriverente. Shteyngart immola se stesso prima degli altri e non fa sconti nemmeno al nostro piccolo Paese, dove la sua famiglia fa tappa per qualche mese. “Prima di lasciare Leningrado siamo stati informati dalla sezione politica degli émigrés di un’interessante piccola stranezza. Se solo potesse, probabilmente metà dei cittadini del blocco orientale si trasferirebbe nel Missouri alla prima occasione, invece questi pazzi italiani non ne hanno mai abbastanza di comunismo. Diventano anche piuttosto violenti, sull’argomento. I giornali danno ancora grande rilievo alle Brigate Rosse”. Era il ’79, il cosiddetto crepuscolo degli anni di piombo. E quelle aberrazioni ideologiche erano tanto lontane dallo spirito del nostro Gary quanto lo sono le attese per ore in fila davanti ai negozi di frutta semivuoti nell’era sovietica agli occhi dei russi di oggi. Shteyngart non si piange addosso semmai vira sul comico quella che sarebbe una tradizionale lamentazione degli over quaranta. “Prima dello yoga, fare tre ore di coda per comprare una melanzana poteva rappresentare un’esperienza meditativa”.
E il libro (godibilissimo) è pieno di queste trovate. Un susseguirsi di battute e metafore per indicare la differenza tra il prima e il dopo e per sottolineare tutti i punti focali della vita. “Arrivare in America dopo un’infanzia passata nell’Unione Sovietica – spiega nel punto esatto in cui inizia a raccontare la parte americana della sua vita – equivale a precipitare da un dirupo monocromatico e atterrare in una pozza in Technicolor puro”.
Da qui una vertigine di scoperte, sconcertanti a volte, più spesso spassose. Ed è soprattutto la famiglia a farne le spese. Nonni e genitori in prima fila. D’altronde il nostro si fa forte di una massima del premio Nobel Czeslaw Miloz che sul rapporto famiglia-scrittura aveva le idee piuttosto chiare: “Quando in una famiglia nasce uno scrittore, la famiglia è finita”.
Gary prova a immaginare che l’aforisma possa essere ribaltato. Almeno per scrittori (o meglio per persone) tanto buffe, stravaganti, piene di complessi, handicap e frustrazioni come il nostro. A soccombere però, sembra suggerire lo stesso Shteyngart, potrebbe essere lo scrittore se la famiglia oppone una strenua resistenza. E infatti il padre non fa che spiarlo ammonendolo a non “scrivere come un ebreo che odia se stesso”.
Il risultato è tutt’altro che fallimentare come il titolo amerebbe farci credere. Il nostro ci ha già deliziato con amabili storie improbabili (tanto che ha dovuto inventare di sana pianta una nazione come l’Absurdistan) contenute nei suoi primi romanzi. Ora ci regala una storia vera, la sua. Altrettanto improbabile per quanto il suo umorismo arrivi a distorcernere i contorni e i colori.
Questo romanzo (considerato dalla temutissima critica del New York Times Michiko Kakutani uno dei dieci migliori titoli usciti nel 2014) può quindi restare nello scaffale dei long seller, dei futuri classici. Per tutte le volte che qualcuno di noi avrà bisogno di capire cosa rende un uomo capace di umorismo e soprattutto cosa stimola una persona a diventare scrittore. “L’umorismo – scrive quasi a fine libro Shteyngart – rimane l’ultima risorsa dell’ebreo assediato, soprattutto quando ad accerchiarlo è la sua gente”.

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