Il successo di un libro è come un cane che si morde la coda. Tutti ne parlano perché tutti lo leggono. E così i lettori sono spinti a leggerlo per capire meglio ciò di cui si parla e – magari – partecipare al dibattito. E così via, finché l’abbrivio iniziale non si esaurisce e il nostro (libro di successo) svanisce progressivamente e lentamente dalla scena. Il successo di Sottomissione di Michel Houellebecq (da noi pubblicato da Bompiani) rientra in questa categoria. Ovviamente l’eco mediatico suscitato dalla tragedia parigina dello scorso 7 gennaio ha fatto da volano per le vendite di Houellebecq, dal momento che il romanzo prefigura una Francia islamizzata. A questo punto la curiosità di leggerlo è diventata tanta. In questi casi mi astengo, però, dalla lettura del suddetto bestseller almeno per il tempo necessario affinché esca di scena. Magari lo metto nella pila dei volumi da leggere ma aspetto che il campo sia di nuovo sgombro. Se non altro per affidarmi a una lettura priva di condizionamenti.
Ora è venuto il momento e così l’ho letto. Libro povero che racconta una storia poco probabile. Non perché non sia possibile che un professore universitario laico e dalla robusta tradizione progressista possa cambiare idea e convertirsi alla fede islamica al solo scopo di difendere la propria carriera universitaria. Bensì perché tutta la scena costruita della progressiva islamizzazione della Francia è troppo immaginifica.
Il libro però ha alcuni sottotesti da tenere nella dovuta considerazione. Il più importante è il recupero di una grande figura della letteratura francese: Joris-Karl Huysmans. Da noi conosciuto principalmente per il romanzo Controcorrente. Il protagonista di Sottomissione ha dedicato tanti dei suoi saggi accademici alla rilettura di Huysmans e la sua lenta trasformazione corre di pari passo con la rivalutazione del pensiero dell’autore di Controcorrente. Libro, questo, che si segnala peraltro quale pietra miliare della narrativa francese (ma non solo francese) per aver superato in un sol colpo il Naturalismo all’epoca imperante. Siamo nel 1884. E gli storici della letteratura sono da sempre concordi nel ritenere che proprio l’anno di pubblicazione di Controcorrente sia l’anno di nascita del movimento decadentista europeo.
Chiusa l’ultima pagina di Sottomissione sono andato in libreria per verificare se era possibile per i tanti lettori di Houellebecq avvicinarsi a Huysmans. E in effetti di edizioni di Controcorrente ce ne sono tante. Segno che l’editore, se sa far bene il suo mestiere, sa quando ritirare fuori un vecchio titolo. La pila di copie di Controcorrente non ha niente, infatti, da invidiare a quella di un robusto longseller.
Leggere Controcorrente (nel mio caso nella splendida edizione Oscar Mondadori curata da Fabrizio Ascari) non è stata tuttavia una passeggiata. Diversamente dal libro di Houellebecq, Huysmans propone sì un testo controcorrente e sfida il lettore su diversi piani. Il suo è un manifesto lucido ma al tempo stesso estremamente cerebrale e il romanzo (la storia della conversione del dandy Des Esseintes, impegnato dapprima a sconfiggere la Natura con l’artificio e poi a cercare rifugio nella spiritualità cristiana) va avanti con un ritmo faticosamente sincopato.
Forse la più arguta sintesi di questo romanzo ce la offre Maupassant che lo definisce “storia di una nevrosi” ancorché “opera stravagante e spassosissima”, mentre la bocciatura più impietosa venne all’autore da uno dei campioni del cattolicesimo francese del tempo (Jules Barbey d’Aurevilly) che parlò di Controcorrente come della “storia di un’anima in pena che racconta la sua incapacità di vivere, persino controcorrente!”
Il libro, nonostante tutto, può far parte della libreria in cui teniamo i classici, quei libri senza tempo capaci di sconfiggere le mode passeggere e i pregiudizi di più generazioni di lettori. Non foss’altro per quella sua impresa quasi titanica, ma alla fine vincente, di sconfiggere il Naturalismo, ricordandoci che la letteratura non deve copiare la realtà semmai reinventarla. In questo senso è lo stesso Huysmans a essere debitore di un altro campione della scena letteraria francese: Edmond de Goncourt. Il quale non ne poteva più di leggere sempre storie edificanti (ma comunque tristissime) di povera gente e ammoniva i “nuovi scrittori” a ritrarre se non altro esseri raffinati in contesti meno sobri. In fondo non abbiamo bisogno della letteratura per deprimerci. Come ricorda lo stesso Huysmans: “Quando ci penso su, mi accorgo che l’unica ragion d’essere della letteratura è di salvare chi la fa dal disgusto della vita”.

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