Leggere l’Ulisse oggi è un’impresa. Figuriamoci tradurlo. Una lingua ostica, una sperimentazione che risulta ardita anche a cento anni di distanza dalla sua stesura. Il capolavoro di James Joyce non è per tutti. E soprattutto non per tutti i traduttori. Ecco perché ogni nuova versione del libro può e deve essere salutata con un applauso. Scaduti  il 13 gennaio del 2012 i diritti d’autore sull’opera del maestro irlandese, in tanti si sono dati da fare per rimpiazzare la celebre traduzione (datata 1960) di Giulio De Angelis per Mondadori. Per adesso nelle librerie troviamo le versioni di Enrico Terrinoni per Newton Compton e quella di Gianni Celati per Einaudi. Proprio dalla lettura di quest’ultima edizione partiamo per fare un paio di considerazioni su cosa vuol dire leggere l’Ulisse oggi.

Sulla modernità del romanzo che Joyce ha scritto nell’arco di tempo che va dal 1914 al 1921 non ci sono certo dubbi. Ancor oggi è insuperato il valore di quella ricerca letteraria. Pochi testi, da allora, sono stati capaci di andare tanto in profondità nell’analizzare debolezze, ansie, crisi e frustrazioni dell’uomo contemporaneo. E, sopra ogni cosa, pochissimi testi letterari hanno piegato il metallo della lingua con tanta lessicale fantasia  (da noi  ci sono andati vicino  – se parliamo di Novecento – soltanto Carlo Emilio Gadda e Stefano D’Arrigo). In ogni liceo o aula universitaria si può convincere gli studenti a leggere questa riformulazione in chiave moderna del mito del Nostos, in cui svettano un Ulisse (Leopold Bloom) ridotto a “uomo qualunque” che attraversa i perigli e le asperità della quotidianità come l’eroe omerico affrontava marosi e mostri mitologici, un Telemaco (Stephan Dedalus) che non ha alcuna voglia di riconoscere il “padre” ma semmai (come Sigmund Freud capiva proprio nel volgere degli stessi anni)  superarlo e “ucciderlo”, e poi c’è lei una Penelope (Molly Bloom) affatto lontana dall’archetipo omerico della fedele compagna che tiene in desco in ordine in attesa del suo uomo. L’uomo moderno, insomma, è un “omiciattolo”, tutta testa e niente coraggio. Suo “figlio” – sembra suggerire Joyce – è uno scavezzacollo, debole e tutto preso dalle proprie ambizioni letterarie, mentre la donna/madre/moglie (ma non ancora emancipata) fa di tutto per affermare il proprio sé (e lo fa confessando tutta la propria libido). Difficile oggi stabilire se e quanto si sia lontani dal modello joyciano, certo è che quel lungo viaggio dublinese, durato aristotelicamente meno di 24 ore (era il 16 giugno del 1914), non ha perso di smalto anche se le asperità della “ricezione” restano tutte. Anzi, a mio modesto avviso, sono pure aumentate.

La seconda considerazione riguarda la fortuna di un simile romanzo. Perché se ne parla tanto? Perché lo si loda a ogni pie’ sospinto? Forse perché in tutti i discorsi si va avanti soltanto per luoghi comuni? E’ così infatti che il pantheon novecentesco racchiude quasi solo romanzi di cui si discetta in maniera inversamente proporzionale alla loro effettiva lettura. La Ricerca del tempo perduto, l’Uomo senza qualità e, nel nostro piccolo orticello italiano, l’Horcynus Orca di D’Arrigo, sono libri che hanno più medaglie che lettori. Al netto della loro qualità (ampiamente dimostrata da generazioni di critici e storici della letteratura), il pubblico li ama poco e non potrebbe essere altrimenti vista la loro difficoltà.

marylin

A questo proposito mi torna in mente un celebre servizio fotografico, firmato da Eve Arnold, che immortala Marylin Monroe in costume da bagno intero (a righe multicolori) all’interno di parco giochi. In mano una copia dell’Ulisse. Dettaglio che non sarà sfuggito ai lettori di Joyce è il fatto che la più bella attrice di sempre sta scorrendo una delle ultime pagine del libro. Insomma è alle prese con il celebre monologo di Molly Bloom (forse la parte più conosciuta dell’intero romanzo), Mettersi in posa con un libro in mano e scegliere come titolo proprio un romanzo poco leggibile. Un corto circuito, quello innescato dalla decana delle fotografe americane, davvero enigmatico. Perché proprio il romanzo di Joyce? E poi: è causale o meno il fatto che l’attrice stia leggendo proprio il monologo di Molly?

 

Ps

Permettetemi un post scriptum per segnalare la traduzione di Celati. Quando l’edizione Einaudi arrivò in libreria, la versione di Celati fu assai criticata: troppo audace, troppo libera, troppo disinvolta. Io non sono un anglista tanto preparato per fare una lettura comparata dell’originale e della versione celatiana. Però non mi è sembrata affatto male. Anzi, ho trovato il testo godibilissimo e molto efficace.

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