Leggendo Senza nome di Wilkie Collins salta agli occhi un dettaglio tutt’altro che trascurabile che rende questo romanzo un unicum e una pietra miliare per la storia del romanzo vittoriano. Il testo, che è da poco tornato sugli scaffali delle nostre librerie grazie alla nuova edizione della Fazi (con splendida traduzione di Luca Scarlini), sorprende in verità per tante qualità: la scrittura, innanzitutto, e poi la vivida fantasia e perizia dell’autore nel creare un romanzo ricco di colpi di scena all’interno di una architettura narrativa davvero complessa. Senza nome (pubblicato a puntate per la prima volta nel 1862 nella rivista diretta da Charles Dickens  All the year round, e forse proprio per il suo carattere di feuilletton, così “corposo” con le sue 800 pagine), dicevamo, sorprende per un dettaglio. E’ il primo romanzo dove a scatenare il plot  è nientemeno che lo smascheramento di una coppia di fatto.

Tanti romanzi (e non solo inglesi) hanno avuto agio di raccontarci storie di matrimoni falliti, matrimoni combinati e soprattutto di tanti e tanti figli illegittimi (magari proprio per questo tagliati fuori da eredità che avrebbero ampiamente meritato).  Questo è il primo romanzo che mette al centro della scena una “coppia di fatto” e, visto l’epoca in cui ci troviamo (siamo intorno al 1860) e il luogo (l’arcigna e prudente Inghilterra vittoriana), non è una questione da poco.

Per giunta non si tratta di una coppia infelice. I signori Vanstone sono agiati signorotti che trascorrono la loro vita in una elegante tenuta (Combe Raven) nel Somersetshire. Hanno anche due figlie (belle, intelligenti e devote) e una austera governante (Miss Garth). E in più si amano alla follia e aspettano – tra l’altro – l’arrivo di un terzo erede. Erede, però, non è la parola giusta. E, alla morte improvvisa e inaspettata del padre seguita a breve distanza dalla morte della madre proprio a causa del parto, le due orfane (Norah e Magdalen) scoprono infatti che la legge non le considera eredi dal momento che sono nate fuori dal matrimonio.

Inutile star qui a districare e a sintetizzare il godibilissimo racconto. Gli elementi del feuilleton vittoriano ci sono tutti. In sopraggiunta ci sono colpi di scena affatto audaci per l’epoca in cui il romanzo è stato concepito.  C’è da dire, forse, che solo a un avvocato mancato come Collins (brillante laurea in legge mai usata professionalmente) poteva venire in mente un simile intreccio. Nemmeno il suo più grande amico, sodale, collega e “socio” Dickens ci ha mai pensato.

Oggi rileggere Senza nome fa bene. Soprattutto perché viviamo in un’epoca in cui il problema delle coppie di fatto e delle unioni civili, con tutti i corollari del caso (adozioni, eredità, pensioni di reversibilità) è tanto dibattuto. Fa bene vedere i rischi  che correvano allora le giovani donne e le garanzie offerte oggi a tutti i figli (non esiste nemmeno più la distinzione tra legittimi e illegittimi).

Dopo il successo ottenuto con la riedizione de La donna in bianco, Fazi assesta quindi un bel colpo che potrebbe diventare (almeno ce lo auguriamo) un’ottima strenna natalizia. Intanto si potrebbe lanciare l’appello per riportare sugli scaffali delle nostre librerie altre perle di Collins come il libro scritto a quattro mani proprio con l’amico Dickens (con il quale in effetti formava una formidabile coppia come la nostra Fruttero e Lucentini) dal titolo Senza uscita (che Nottetempo pubblicò nel 2003 ma che da tempo è esaurito) oppure La pietra di luna (uscito da noi quasi in sordina nel 2013 per l’editore Faligi, ma attualmente introvabile), considerato dagli storici della letteratura britannica come il primo esempio di romanzo giallo (osannato persino da un lettore raffinato come Thomas Stearns Eliot). La ricchezza della trama e la suspence lo rendono ancor oggi godibile. Di sicuro più del nostro Il cappello del prete (Emilio De Marchi) arrivato al traguardo della pubblicazione ben vent’anni dopo l’illustre precedente britannico 1888, e ancor oggi leggibile soprattutto per il sapido condimento lessicale.

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