Il romanzo contemporaneo? E’ vecchio. Un paradosso? Non proprio. Prendete l’ultimo romanzo di Tiziano Scarpa. Si intitola Il brevetto del geco (Einaudi). Poi prendete La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne (tante le edizioni tascabili disponibili, ottima quella degli Oscar Mondadori con un saggio introduttivo di Walter Scott) e confrontateli. Ovvio che siano distanti tra loro sotto tanti punti di vista, ma una cosa certamente in comune ce l’hanno. Sono romanzi che mettono alla prova la resistenza del genere di fronte alla sfida più difficile: quella di interrogare la natura del suo stesso codice espressivo. Quindi il romanzo di Tiziano Scarpa (arrivato ora a inizio 2016) almeno su questo punto non sposta l’assicella di un millimetro rispetto a quanto fatto da Laurence Sterne  che ha pubblicato il suo capolavoro nel 1767. Lo scrittore inglese, tanto amato da Ugo Foscolo, rinuncia fin da principio a raccontarci una storia lineare. Pure il suo protagonista viene negletto dallo stesso autore in favore di altri personaggi. Lui ha solo bisogno di pretesti, piuttosto che di storie, perché deve misurare quanto elastica sia la lingua del romanzo. Vuole esplorarne tutti gli anfratti. E’ ovvio che ha bisogno di qualcosa per portare avanti questo esperimento. In questo senso più che di storie ha bisogno di personaggi. Come la vedova Waldman, che si inventa di tutto pur di far cadere tra le sue braccia il bellimbusto Toby, zio del protagonista, poi c’è il parroco Yorick, il valletto Trim, i genitori di Tristram, papà bislacco paladino delle tradizione e mamma amorevolmente assente. Si tratta di espedienti che servono all’autore per misurare la sua capacità di divertire e attrarre il lettore. Ma senza distrarlo, però. Anzi. Il dialogo con quest’ultimo è molto metaletterario. Al punto che richiede al lettore un’attenzione e adesione piena.

Scarpa invece ha una buona storia. Prende alcuni personaggi curiosi, vagamente borderline, per buttarli allo sbaraglio. Il povero Federico Morpio, aspirante artista concettuale, diventa orfano proprio nel momento in cui decide di abbandonare l’arte contemporanea per diventare infermiere-pedicure. Adele, invece, vuole convertirsi a un cristianesimo puro e rinnovato quando legge nelle visite di un geco nel suo monolocale milanese un segno di Dio. Le loro vite corrono parallele per tutto il romanzo fino a fondersi nel finale. L’arte contemporanea, più della fede di Adele e quindi di tutte le sue elucubrazioni teologiche, offre un’ottima sponda all’autore/narratore di questa storia. Perché le domande, che oggi gli artisti si fanno, sono le stesse che in questo testo si pongono le parole. Già, perché il vero protagonista di questo romanzo (come quello di Sterne) sono le parole. Il linguaggio, insomma. Loro si permettono di commentare, di interloquire con l’autore, di disperarsi (cosa questa che fanno spesso quando si accorgono di non poter provare tutte le emozioni e passioni delle persone). Insomma il romanzo di Scarpa nel suo piccolo chiude il cerchio aperto da Sterne. E lo fa con l’unico pretesto oggi possibile: un romanzo che entri nel mondo dell’arte contemporanea. Il cui canone, oggi, consiste di un solo elemento, i paradossi concettuali del suo stesso fondamento. Solo in un simile romanzo, forse, potremmo leggere lo sconsolato lamento delle parole. “Non bastiamo a noi stesse, chiunque può sfondarci con un link, facendoci diventare una soglia, non siamo più una destinazione, ci stiamo trasformando in un passaggio. Il nostro vicolo cieco è diventato un’uscita”.

ps

se tra i lettori di questo blog ci sono appassionati cultori del genere metaletterario consiglio un’altro titolo: I racconti di John Cheever (Feltrinelli). Tra essi è nascosta un’autentica perla che avrebbe entusiasmato anche Sterne e Miguel de Cervantes. Si intitola La chimera e parla di un uomo che arriva a immaginarsi un’amante, fino al punto di dotarla di una propria vita. Ma questa amante confonde le idee allo stesso autore con il suo ambiguo status. Piccolo capolavoro davvero.

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