Fin dalle prime pagine di Purity, l’ultimo romanzo di Jonathan Franzen (pubblicato come i precedenti da Einaudi e tradotto da Silvia Pareschi), il lettore attento sa che si tratta di un libro che resterà. Uno di quei volumi che non abbandoneranno gli scaffali delle librerie domestiche per lasciar il posto a romanzi più moderni e più fascinosi. E non solo perché si offre come analisi impietosamente lucida delle derive disumanizzanti provocate dal nostro moderno stile di vita (tecnologico e iperconnesso). Rimarrà un libro valido per ulteriori letture perché il suo autore compone una storia fatta di colpi di scena, agnizioni, salti temporali e geografici che ricordano non poco la sapienza degli scrittori ottocenteschi, quelli il cui magistero è – a detta di tutti gli addetti ai lavori – ancora insuperato. Tra questi maestri, vissuto come autentico modello, c’è Charles Dickens. Non è un’intuizione dell’autore di questo blog che il “maestro” inglese sia visto da Franzen, almeno per questo romanzo, come un lume e soprattutto come un modello. È lo stesso autore delle Correzioni a rivelarlo, scegliendo Pip come nomignolo per la protagonista (la ventenne americana Purity). Una innocente citazione? Un rimando fin troppo scontato? Come il protagonista (maschio, però) di Grandi speranze anche Purity si dà un sacco da fare per conoscere l’identità di suo padre.

Nata e vissuta soltanto con la madre, commessa in un supermercato di Wichita (Kansas), Purity Tyler ha un pensiero fisso (il debito d’onore per gli studi universitari da restituire alla banca) e una sola ambizione. Scoprire chi è suo padre. La madre ha cambiato identità, ha vissuto a lungo da nomade per fare perdere le sue tracce dicendo alla figlia che aveva paura che l’uomo che è geneticamente suo padre avrebbe fatto di tutto per portargliela via se solo l’avesse trovata. Nei suoi peregrinaggi finisce a vivere praticamente da squatter in una casa occupata di Oakland (California). Qui conosce Annagret una quarantenne tedesca che le consiglia di contattare il “mitico” Andreas Wolf. Potrebbe – le dice – unire l’utile all’utile: fare uno stage retribuito nel suo Sunlight Project e al contempo sfruttare le risorse della potente macchina messa in piedi dallo stesso Wolf per trovare il padre. Wolf, nelle intenzioni di Franzen, ricalca da vicino la figura di Julian Assange. Come il padre di Wikileaks, Wolf ha messo in piedi in mezzo a una quasi impenetrabile foresta della Bolivia un centro informatico di raccolta ed elaborazione dati. Assurto agli onori della cronaca quale eroe (quasi involontario) della lotta alla Stasi nella ex Germania comunista, Andreas ha sfruttato il suo carisma e il suo fiuto per divenire confidente internazionale di chiunque abbia segreti da divulgare.

Alla fine Purity riuscirà a trovare il padre, dopo aver girato in lungo in largo tra Bolivia e Stati Uniti. Nel contempo Franzen ci avrà portato nella Berlino degli anni Ottanta, nella Philadelphia della upper class  e nella California di oggi. Un lungo viaggio tra segreti cibernetici, giornalismo d’inchiesta, polizia politica, spie e spioni. Un viaggio che gli ha offerto il destro per ammonirci sulla crisi d’identità e su quella delle relazioni interpersonali di una società fin troppo condizionata dalla realtà virtuale dei social network.

Certo, forse Dickens ci avrebbe messo un pizzico in più di ironia. Forse il padre di Oliver Twist avrebbe mostrato maggior partecipazione emotiva nei confronti dei suoi personaggi, ma la macchina narrativa non sarebbe stata molto diversa. Chissà se è proprio lo svolgimento dickensiano della storia ad aver fatto diventare la traduttrice (la ottima Pareschi) fin troppo ottimista riguardo al grado di consapevolezza dei lettori italiani. A pagina 628 evita di aggiungere una nota a pie’ di pagina nel corso di un dialogo madre/figlia. Dove la giovane Purity (per tutti Pip) risponde alla madre a proposito di un’eredità cospicua. “- Finché sei viva tu saranno solo grandi speranze – Pip scoppiò a ridere”. Se non si è stati lettori appassionati di Dickens il senso della battuta sfugge. I lettori di lingua inglese ovviamente non avranno bisogno di note a pie’ di pagina. Sono praticamente cresciuti a pane e Grandi speranze. Ma quelli nostrani? Sicuro che tutti la capirebbero? O che l’hanno capita? Molti di sicuro, ma non tutti. Chiuso il libro ho provato a chiedere a chi mi capitava a tiro ma nessuno sapeva dirmi chi era Pip. Avrà fatto bene o avrà fatto male la traduttrice a evitare la nota? Francamente non so cosa rispondere. Però ammiro il suo ottimismo.

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