Sta tornando di moda parlare di Anna Karenina. Non foss’altro perché sugli scaffali delle librerie è comparsa una nuova traduzione. L’eroina bella e sfortunata;la donna che non riesce a riscattare la sua colpa;  cui non riesce di negarsi ai sentimenti e ai moti del cuore, torna alla ribalta grazie alla traduzione di  Claudia Zonghetti commissionata da Einaudi. Una traduzione senz’altro più fedele al testo ma al contempo più “moderna” (almeno rispetto al precedente einaudiano di Leone Ginzburg).  Saranno così contenti tutti quelli che non perdono occasione di citare l’abusato incipit del romanzo (Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo mentre tutte le famiglie felici si somigliano). Ignorando che più di un incipit, quella è la stessa sintesi del romanzo. Che infatti parla di tre famiglie. Due felici e una no. Al contrario della stessa celebre frase tolstojana, però sono proprio le famiglie felici a fare numero. E sul confronto tra le due famiglie felici (quella di Levin e Kitty e quella di  Stephan e Dolly) possiamo declinare due diversi modi di essere sereni se non proprio soddisfatti. L’unica famiglia  infelice è quella di Anna. Tradisce il marito più vecchio di lei con un aitante ufficiale, il conte Vronskj. Vanesio ed egocentrico. Superficiale e sportivo. Anna si innamora di questo bellimbusto. E non solo. Con il conte Vronskj ci fa pure una figlia (che chiamerà Anna, quando si dice la fantasia…). Poi si accorge che la società non le perdona l’adulterio e la vita “matrimoniale” con un uomo che non è suo marito. E che soprattutto non è il padre legale dei suoi figli. E il rifiuto della società le pesa come un macigno. A cui si aggiunga poi il peso che ha sulla coscienza. Insomma il finale è scontato.

Però stiamo parlando di un capolavoro, non di un romanzetto. Tolstoj ci regala un personaggio dalle sfaccettature straordinariamente complesse. Arriva al punto di innamorarsene lui stesso. E – secondo gli esegeti più acuti – eviterebbe per questo di far pesare il suo giudizio morale sul personaggio. In verità è più facile pensare che delle tre famiglie quella di Anna sia infelice perché il personaggio è tutt’altro che positivo. All’inizio del romanzo compare in qualità di paciere. E’ a lei che viene affidato il compito di ridurre Dolly a più miti consigli nei confronti di un marito un po’ troppo gaudente. Il nostro primo incontro è con una donna intelligente e sensibile. Che sa quali corde pizzicare per far suonare in armonia Dolly col marito. E poi piace. Anna piace a tutti. Dai comprimari alle comparse. Dai figuranti alle maestranze che stanno dietro questo capolavoro. Solo che poi sbaglia strada. Insomma non mette a frutto i suoi talenti e si fa comandare dal cuore e dall’istinto, piuttosto che dalla coscienza e dal buonsenso.
Che ci sia un giudizio morale sul capo di Anna è – a mio avviso – chiarissimo anche dal fatto che non è lei a chiudere questo romanzo. Un romanzo che soltanto furbescamente viene dedicato a lei. Ma che in verità si chiude con Levin (il personaggio più vicino all’autore stesso), nobile e ricco possidente terriero. Illuminato, filosofo, progressista ma attento ai valori più profondi dell’umanità. Insomma un personaggio – questo sì – davvero positivo. Fin troppo. Tanto che risulta stucchevole persino il suo romanticismo, la sua devota passione per la piccola Kitty. E’ Levin che ha i fari puntati contro quando cala il sipario su questa storia, tutt’altro che originale e tutt’altro che affascinante.

Per fortuna è un capolavoro a dispetto della stessa mancanza di fantasia e di coraggio del suo autore. E le scene che precedono e seguono il suicidio di Anna sono sicuramente  pagine illuminanti. Lo stream of consciousness è qui che prende le mosse altro che Joyce! Le metafore e le descrizioni sono di una modernità quasi senza pari. Anche la vita dei campi e la vita di Levin in campagna godono di descrizioni di una modernità straordinaria che la nuova traduzione esalta. Peccato per quel rigore e quella spietatezza nei confronti della sua eroina.  Un rigore che lascia il lettore anche senza armi. Non possiamo difenderla ma non possiamo nemmeno difenderci. Tolstoj insomma è più severo ed egoista di Flaubert, che se è vero che ha deformato e distrutto la figura di Emma Bovary durante il suo suicidio, è altrettanto vero che per tutto il romanzo ci ha regalato perle di ironia che, queste sì, sono boccate di aria fresca per il lettore moderno.

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