Siamo ancora qui a scandalizzarci delle frasi fatte e degli stereotipi sbandierati come indigesto buonsenso. Perché da un lato c’è la fazione degli illuminati, quelli che si indignano se le donne vengono abbassate al livello di modello immodificabile, dall’altro ci sono quelli che invece vedono nella vox populi la voce di un dio. Quelli per intenderci che fanno delle banalità a basso costo perle di rara saggezza. Ed è così che l’ultimo dibattito culturale ha visto come pretesto la gaffe di una trasmissione televisiva dove veniva – ma per gioco, come hanno assicurato gli autori – offerto ai telespettatori un piccolo decalogo della donna perfetta (donna che tra l’altro non è nemmeno autoctona, bensì proveniente da un non meglio precisato Est). Ovviamente la cosa ha suscitato una valanga di proteste. Con il risultato che la trasmissione è stata addirittura sospesa (ma, si difendono i gestori del network, soltanto perché aveva bassi indici di gradimento). Senza entrare nel dibattito propriamente televisivo, è facile però constatare che gli stereotipi sono duri a morire e ancor oggi i rapporti di coppia o meglio i rapporti tra i due sessi vengono stancamente irregimentati su binari piuttosto collaudati. Uno di questi cliché, ovviamente, è il “classico” rapporto tra uomo maturo e ragazzetta. Lui solitamente di estrazione borghese, buon livello culturale, lei solitamente proletaria, vagamente ignorantella. È inutile far finta di scandalizzarsi. Difficilmente troveremo un racconto, un film, un romanzo che parli del rapporto tra una giovane di buona estrazione sociale e magari anche capace di sapere cos’è un capitello, un fregio dorico o l’enjambement, e un uomo di una certa età però senza un soldo bucato, magari anche con solo la quinta elementare.

Si potrebbero e dovrebbero indagare a fondo le ragioni del radicamento di questo cliché letterario. Perché delle ragioni ovviamente ci sono. Basti semplicemente dire che la letteratura è piena di casi del genere. E non solo la letteratura (ma anche il cinema e la musica). Qui vogliamo citare forse il caso più celebre. Almeno restando dentro l’ambito tutto italiano. La lettura di un romanzo, infatti, mi sento di suggerire per osservare un punto di vista che, se non si vuole originale (perché decisamente non lo è), è però illuminante. Un amore di Dino Buzzati racconta una storia che ancor oggi è capace di ingentilire i nostri punti di vista. Renderci più saggi e più compassionevoli. E di fermarci un attimo prima di sputare facili sentenze e di mostrare altrettanto facili indignazioni.

E questo non perché Buzzati ci regali tesi inedite e fuori dagli schemi. Al contrario. Sa percorrere la strada (più che battuta) del cliché per offrirci personaggi autentici e sofferenti, capaci di darci sprazzi di umanità vividi e toccanti. Insomma l’autore del Deserto dei tartari non è un esploratore di sentieri inediti. Non batte come Nabokov con la sua Lolita sul dente dolente della morale borghese. Né tanto meno esalta il potere della seduzione femminile come Heinrich Mann ne Il professor Unrat. Un amore può essere riassunto nel più facile dei cliché, quello che consente anche al più pigro dei moralisti di atteggiare uno sguardo sprezzante sul libro uscito nel 1963. Il romanzo racconta infatti la storia di Antonio Dorigo, architetto quasi cinquantenne nella Milano dei primi anni Sessanta che perde la testa per una ragazza, la giovane Adelaide (ma per tutti Laide) conosciuta nella casa d’appuntamenti della signora Ermelina.

Buzzati non bissa il successo ottenuto con il Deserto dei tartari. Almeno all’inizio. Quando esce, Un amore trova i critici e il pubblico piuttosto freddi e disorientati. Eppure è diventato senza dubbio uno dei romanzi più letti del Novecento. Ancor oggi la Mondadori ne stampa un’edizione all’anno (da quando uscì nella collana dei tascabili Oscar, sono ben 54 le ristampe arrivate nelle librerie italiane). Prova che Buzzati ha colpito nel segno. Anche se all’inizio quell’impudicizia e quella irrefrenabile impulso di autenticità non consegnarono al testo i dovuti omaggi.

Da buon borghese benestante e illuminato, Dorigo non vuole rinunciare al suo status, alla sua posizione e alla sua libertà. Gli piace la sua condizione di single. Anzi oggi verrebbe definito un bamboccione attempato visto che ancora vive con l’anziana mamma. Però il piacere e la debolezza della carne gli impongono frequenti visite dalla signora Ermelina. La Laide, di cui qui fa la conoscenza, non è come tutte le altre. E proprio il suo essere sfuggente a facili etichette induce Dorigo ad abbassare la guardia. Fino al punto di cadere preda di un innamoramento ossessivo e senza speranza. Prova in tutti i modi a ridurre il rapporto a una questione di possesso. Spera che i soldi gli concedano il controllo della giovane. Che la sua posizione possa in qualche modo intimorire la ragazza riducendola a mite preda della sua lussuria. Però a sfuggirgli di mano sono proprio i sentimenti. E i momenti più lirici sono proprio quelli in cui vorrebbe condividere con la giovane Laide non tanto i piaceri della carne quanto la ritrovata armonia con il mondo. Tramonti struggenti, musiche toccanti, momenti indicibili restano sospesi nel vuoto. Lei è troppo materiale e grezza, lui incapace di aprirsi. Un amore, insomma finisce per essere una lucida analisi dei rapporti impossibili, ancorché i più frequenti che ci sono tra uomo e donna. Indispensabile antidoto, quasi un vaccino, contro la malattia del luogo comune.

 

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