Sessant’anni portati benissimo. Non possiamo però dire che sembra scritto ieri. Perché L’isola di Arturo di Elsa Morante (Einaudi) non condivide con i romanzi di oggi lo stesso stile e la stessa lingua. Se andate a cercarne notizie sui manuali di letteratura vi diranno che apparteneva al filone del realismo magico. Come se fosse un’epigona di Massimo Bontempelli. Non fateci caso. Era il solito vizio degli storici del Novecento di catalogare tutto e di dividere gli autori per consorterie e parrocchiette. No. Se la Morante ha un debito è ovviamente con Dickens che meglio di chiunque altro scrittore ha messo l’infanzia e l’adolescenza come pietre angolari delle storie da raccontare. Quella del piccolo Arturo G., figlio di Wilhelm Gerace, è un classico racconto di formazione. Che più canonico non si può. Il piccolo Arturo è orfano di madre (morta di parto). E il padre (un tedesco trapiantato a Procida) non si trova bene sull’isola che lascia ad ogni occasione buona. Il nostro protagonista quindi vive da solo. Gli echi della guerra (è ambientato alla fine degli anni Trenta e primi anni Quaranta) sono lontani e si colgono soltanto a fine romanzo. Arturo impara a vivere come farebbe un animaletto selvatico. Esplora colline, spiagge, grotte, vicoli e sentieri. Scandisce la prima parte della sua vita al ritmo degli elementi naturali. Tra cielo e mare e sole. Accudito da nessuno ma controllato da tutti i procidani. Impara anche cos’è l’amore. E ovviamente si innamora dell’unica donna “impossibile”, vale a dire la matrigna, che il padre abbandona in perfetta solitudine nella grande casa sull’isola, eredità di un personaggio, chiamato l’Amalfitano, sospetto se non altro per la sua eccessiva misoginia. L’amore viene declinato, grazie alla sapiente mano della Morante, in tutte le sue variabili. Con mano sicura, la scrittrice toscana offre una magistrale prova di raffinatezza cogliendo tutte le sfumature degli stati d’animo del bambino/ragazzo e di Nunziata, la sposa bambina abbandonata sull’isola da un marito troppo irrequieto per condividerne il confino procidano. Il libro naturalmente si chiude con l’entrata di Arturo nell’età adulta, simboleggiata dalla sua partenza per il continente. Ancor oggi il romanzo viene spesso dato in mano agli adolescenti come lettura scolastica. Ottima scelta da parte dei loro insegnanti. Perché la Morante, senza sfidare il pudore comune, riesce a raccontare con delicatezza e con empatia le frustrazioni di un ragazzino che vuole crescere in fretta (cosa oggi quasi impossibile), l’ansia di una ragazza che solo vorrebbe avere un uomo vicino per vincere la sua paura del mondo, e di un’isola che si fa teatro di un’umanità solidale e raccolta. Forse meglio di altri grandi autori italiani del Novecento (come Alberto Savinio o il solito Calvino), la Morante è riuscita a farci vedere il mondo di un’isola come Procida (alla deriva nel mare della storia del Novecento) con gli occhi di un ragazzino. I cui sogni e le cui speranze prendono corpo e diventano carne viva che riusciamo  a toccare. Basta una citazione per darne un’idea “A uno non basta la contentezza  – pensa ad un certo punto Arturo, cercando di misurare il suo stesso coraggio – di essere un valoroso, se tutti quanti gli altri non sono uguali a lui, e non si può fare amicizia. Il giorno che ogni uomo avrà il cuore valoroso e pieno d’onore, come un vero re, tutte le antipatie saranno buttate a mare. E la gente non saprà più che farsene, allora, dei re. Perché ogni uomo, sarà re di se stesso”. Nel corso di un’intervista, la Morante a proposito di questo libro disse che a scriverlo era stata mossa dal desiderio di essere un ragazzo. Di pensare come un ragazzo. Credo che ci sia riuscita perfettamente. Come dimostra il fatto che ancor oggi sia uno dei romanzi più consigliati dai professori delle scuole. Peccato che per i ragazzini di oggi, però, che vivono confinati in un’isola creata dal frastuono tecnologico che li circonda. Un’isola, questa, ben più angusta e soffocante di della Procida di Arturo. E’ così piccola la loro isola che riesce a stare in una mano. Si accende e si illumina e dà loro l’illusione di viaggiare e di evadere. In realtà lo smartphone li riduce a un isolamento affatto improduttivo. La speranza dei genitori, e prima di loro degli insegnanti, è che il romanzo della Morante li aiuti a evadere da quella condizione di schiavi dello smartphone. Incrociamo le dita e auguriamoci pieno successo.

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