La prima cosa che ti viene in mente dopo aver finito di leggere un romanzo di Stephen King è il senso di “urgenza” della scrittura che attanaglia un virtuoso della fiction letteraria come è il “padre” di Cujo. Quasi riesci a vederlo, King, che non alza le dita dalla tastiera del computer fino a quando non è riuscito a dare forma concreta ai fantasmi che popolano la sua mente. E nessun suo libro è esemplare, a questo proposito, come Dolores Claiborne (pubblicato da noi dalla Splering & Kupfer, come tutti i suoi titoli, e tradotto come sempre da Tullio Dobner). E’ un romanzo che racconta di incubi, di omicidi, di violenza, di fenomeni paranormali (collegati a un’eclisse di sole nel Maine). Un racconto, quindi, ben dentro il suo classico repertorio. Se non fosse per un dettaglio stilistico ragguardevole. Il racconto non è altro che un monologo. Non di quella roba “interiore”, da scrittori-psicologi. Un vero monologo, sciorinato davanti a poliziotti e stenografa, dove la protagonista racconta la sua versione dei fatti. E il bello è proprio questo. Dalla prima all’ultima parola del libro noi siamo Dolores Claiborne, noi sentiamo quello che sente Dolores, noi proviamo le sue stesse paure e soprattutto vediamo quello che lei ci mostra. E soltanto quello. A questa nota stilistica, poi, si aggiunge la scelta del traduttore di regalare a Dolores un linguaggio semplificato. D’altronde è una domestica, sicuramente non scolarizzata. Ha trascorso tutta la sua esistenza a stendere panni e a lavare cessi. Una così, si sono detti i curatori dell’edizione italiana, non usa il congiuntivo. E in effetti: in 267 pagine (tante sono quelle dell’edizione che mi è capitata tra le mani) il congiuntivo ricorre soltanto in due pagine. La prima volta, peraltro, è una citazione di un discorso altrui. Quindi addirittura virgolettato (una telefonata anonima dove a un certo punto si dice: “Non abbiamo bisogno di assassini qui, Dolores Claiborne, e non ce ne saranno finché resterà sull’isola anche un solo decente cristiano a impedire che ce ne siano”). Ho subito pensato: l’eccezione che conferma la regola. Anche se la lettura in effetti è appesantita dall’uso indiscriminato dell’indicativo, cui noi – lettori italiani – non siamo abituati. Poi, però, il colpo di genio (attribuibile totalmente al traduttore? C’è anche lo zampino dell’autore?). Siamo all’ultima pagina. Ormai la “confessione” sta finendo. Dopo ore e ore di racconto, Dolores sta ultimando. Una volta esauriti colpi di scena e agnizioni varie, la protagonista sta regalando al suo uditorio piccole e brevissime considerazioni personali. E qui arriva la sorpresa. A poche righe dalla fine: “Sono venuta qui per dire la mia e l’ho fatto, dalla prima parola all’ultima e non c’è parola che non sia pura e semplice verità”. Curioso! Dolores ti pesca il jolly all’improvviso con un congiuntivo proprio nella frase dove tutti aspetterebbero un indicativo forte, sicuro, asseverativo come solo l’indicativo sa essere. Un congiuntivo per mettere una pulce nell’orecchio al lettore, un congiuntivo per far traballare tutte le nostre certezze. Un colpo di genio. Un virtuosismo che non ha pari nella letteratura (perché di letteratura qui bisogna parlare). Giusto George Perec aveva tentato qualcosa di altrettanto virtuosistico. Con il suo celebre romanzo La disparition che valse a Piero Falchetta, suo traduttore italiano (impegnato nella titanica impresa di tradurre per il coraggioso editore Guida un romanzo dove dalla prima all’ultima parola non compariva mai la lettera E), un prestigioso riconoscimento (premio Leone Traverso 1996). Perec e il suo traduttore, ovviamente partivano da necessità affatto differenti da quelle di King e del suo traduttore. E’ sempre un piacere, però, constatare come la lingua, lo stile letterario, e i giochi verbali continuino a far parte del nostro orizzonte di attesa di lettori forti, lettori che riescono ad appassionarsi con un thriller, dal ritmo incalzante, così come con un raffinato romanzo (solo in apparenza un noir alla maniera di Edgar Allan Poe), ispirato addirittura all’antico lipogramma greco (composizione letteraria dove non compare mai una lettera).

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