La vittoria di Helena Janeczek al Premio Strega con il romanzo La ragazza con la Leica (Guanda) è stato salutato non soltanto come l’affermazione di una scrittrice dopo tanti anni, ma anche come l’affermazione del testo più sperimentale tra quelli in concorso. Soprattutto quest’ultima constatazione mi porta a pensare a Luigi Malerba che il Premio Strega non l’ha mai vinto. A cinque anni dalla scomparsa dello scrittore emiliano, arriva in libreria Sull’orlo del cratere (Mondadori), raccolta di racconti cui l’autore stava lavorando prima di morire. Giochi linguistici, capovolgimenti di senso, “paradossi irresistibili” che segnano la cifra della poetica e del lavoro letterario che Malerba ha portato avanti per tutta la vita.  Ingredienti che si ritrovano insomma in tutta la sua produzione. A cominciare dal suo debutto come romanziere, nel 1966 con Il serpente. Se proprio non potete prendere il Meridiano a lui dedicato dalla Mondadori con un imperdibile saggio di Walter Pedullà, regalatevi come lettura estiva proprio  Il serpente.  Risente in pieno del clima sperimentale della neoavanguardia pur evitando di cadere nella trappola ideologica del falso conflitto tra letteratura impegnata e letteratura d’evasione. Nel romanzo, infatti, Malerba ci offre una prova esilarante e convincente di uno sperimentalismo tutto linguistico e centrato sulle potenzialità dell’organizzazione del testo. Il protagonista del Serpente è infatti un mistificatore. Un uomo che, forse, ha raccontato al lettore un sacco di menzogne. Sbugiardato a fine libro dallo stesso autore.  Il nostro antieroe gestisce un piccolo negozietto di francobolli in via Arenula. La sua passione per la musica lo porta a iscriversi a un coro amatoriale che si riunisce in una palestra del rione Prati, dietro piazza Cavour. Qui conosce una bella ragazza di nome Miriam. Alla fine, la gelosia lo indurrà a una soluzione molto cruenta: il cannibalismo. Come ha scritto Angelo Guglielmi in un suo recente articolo, quella raccontata ne Il serpente è “una trafila di accadimenti inesistenti e pur terribili, legati da una logica inesorabile”. Ed è quando l’omicida, cioè il narratore, vuole autodenunciarsi che i nodi della finzione letteraria arrivano al pettine. I dubbi su cui lavora il commissario chiamato a investigare non riguardano l’identità del vero colpevole, bensì l’identità della vittima. Insomma, tutta la storia finisce per rivelarsi come l’invenzione di un mitomane. Ma è Malerba stesso a denunciarlo. E le prime crepe della logica stringente riguardano addirittura le modalità dell’assassinio. Il filatelico cannibale avrebbe prima avvelenato col cianuro la sua vittima e poi l’avrebbe mangiata. “Se i fatti fossero andati come dice lei, adesso non starebbe qui a raccontarli, sarebbe morto anche lei. A questo non avevo pensato. Mi ero già contraddetto più volte sull’ora, sul luogo, sul colore degli occhi”.  Arrivati a questo punto la confessione diventa metaletteraria. E il filatelico è costretto ad ammettere: “Io scrivo Miriam, ma non si tratta di Miriam, si tratta di una parola, di niente. Chi la legge non capisce. Allora cancello tutto e ricomincio da capo”. Fino alla resa finale: “A forza di parlare di raccontare, mi crederanno un impostore, un visionario. Ho fatto una cosa incredibile, ma qualche volta la verità è incredibile, non sta né in cielo né in terra”.  Oggigiorno non capita spesso di imbattersi in romanzi che mettano in discussione il canone, che soprattutto misurino le capacità di resistenza della stessa logica narrativa. Per non parlare poi delle ancor oggi valide domande metaletterarie alla Pirandello sulla esistenza e consistenza dei personaggi di carta. Un romanzo come questo, insomma, può soltanto fare la felicità del lettore goloso, desideroso di sfide di intelligenza. Anche se il  romanzo in questione non ha vinto il premio Strega.

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