Qualche anno fa, quando collaboravo come assistente volontario alla cattedra di Letteratura italiana contemporanea della Sapienza, mi è capitato di incontrare uno studente operaio. Non uno studente lavoratore. Ce ne stanno tanti. Proprio uno studente operaio. Era la solita sessione d’esami, angosciante per gli studenti e frustrante per chi è chiamato a interrogarli. Ogni tanto, però, anche chi interroga ottiene delle belle soddisfazioni. Nel mio caso capitò proprio quando si sedette di fronte a me questo studente operaio. Avrà avuto la mia età (quindi abbondantemente sopra i trenta), allegro e disinvolto. E già qui le differenze con gli altri studenti sono abissali. La maggioranza si siede già divorata dall’ansia e le parole escono col contagocce. Per non parlare della disinvoltura, ovviamente assente. Questo studente operaio, invece, era felice di trovarsi lì. Era un adulto, ovviamente. Quindi la maturità aveva anche ragioni anagrafiche. Tuttavia non gli incutevo alcun timore reverenziale ed era felice di verificare la sua preparazione su un argomento, la letteratura italiana novecentesca, che gli stava particolarmente a cuore. L’esame si svolge nel migliore dei modi. Risponde con precisione a tutte le domande. Anche alle più difficili. E lo fa sempre col sorriso sulle labbra. Sempre felice di azzardare rimandi e paragoni. Non faceva citazioni. Non vantava conoscenze e bibliografie. Semmai era disposto anche ad ammettere limiti e ignoranza. Però le cose che aveva letto le aveva davvero assimilate e soprattutto le usava come grimaldello come strumento per leggere il reale. Nella mia posizione (di assistente volontario) non potevo chiudere l’interrogazione. Dovevo comunque portare il candidato dal titolare della cattedra e suggerire un voto. Quando mi ritrovo a questo punto dell’esame, cedo alla mia inclinazione professionale (sono pur sempre un giornalista) e gli faccio alcune domande personali. E quando gli chiedo che lavoro fa mi risponde guardandomi dritto negli occhi con un sorriso malizioso: “Lavoro in fabbrica. Come Albino Saluggia”. Rimango stupito. Felicemente stupito! L’allusione meritava da sola un trenta e lode. Non avevamo in programma Memoriale di Paolo Volponi e probabilmente se avessi chiesto al resto dei candidati di dirmi qualcosa sullo scrittore marchigiano (che ha vissuto anche una piccola parentesi politica come senatore della Repubblica e vinto il Premio Strega) non avrei ricavato che una scena muta. Oggi mi ritorna in mente Albino Saluggia. A farmi scattare questo ricordo è Works di Vitaliano Trevisan (Einaudi, 2016). Un gran libro. Un memoir in prima persona in cui l’autore ripercorre tutte le sue esperienze lavorative prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. E dove l’operaio, o meglio, il lavoratore che usa prevalentemente le sue mani è protagonista assoluto. Un memoir, l’ho definito. In effetti è qualcosa di diverso da un romanzo (pur sinceramente) autobiografico. L’uso della prima persona, poi, sposta la connotazione sempre al confine della narrazione pura. Un monologo, quello di Trevisan, che sconfina infatti spesso con il monologo teatrale. Dove la voce, imperiosa, si fa materia. D’altronde l’autore passa senza soluzione di continuità dai racconti, ai testi teatrali e, più raramente, al romanzo. E questo per la sua naturale diffidenza nei confronti dell’invenzione. Trevisan sa che tutto è artificio ma preferisce trattare questa realtà artificiale con le dovute maniere. E si appella a Laurence Sterne. Lo scrittore inglese, insieme con Samuel Beckett e Ludwig Wittgenstein, è il nume tutelare di questa storia nella quale Trevisan ripercorre tutte le sue avventure lavorative. È stato tutto: da saldatore a muratore, da lattoniere e geometra comunale, da commesso di negozio a disegnatore, fino all’ultima occupazione: portiere notturno. Trevisan riesce benissimo nell’impresa di avvicinarci al lavoro semplicemente perché ha fatto proprio quel lavoro. Qui non si tratta di scomodare le solite categorie di realismo, neorealismo, neo-neorealismo. Qui c’è soltanto un autore, la sua reale esperienza di vita, e l’inclinazione (forse anche l’ambizione) a trasferirla su carta chiedendo la mediazione della lingua letteraria. Qui entrano in gioco Beckett, Wittgenstein e soprattutto Sterne. Perché la lingua non restituisce la realtà. Non comunica mai al grado zero. C’è sempre mediazione, sempre c’è stile. Tanto vale mettersi l’anima in pace e raccontare “letterariamente”. E Trevisan lo fa alla grande. Trova una lingua molto letteraria. E si diverte anche a giocare con i doppi sensi e con le trappole metaletterarie (che proprio Sterne ha inventato). Ecco perché alla fine della lettura ho ripensato a Saluggia e al celebre romanzo di Volponi (uscito per Garzanti nel 1962 e ora in catalogo Einaudi). Quella (primi anni Sessanta) era l’epoca in cui si esaltava la cosiddetta “letteratura industriale” e il neorealismo. E tanti scrittori mettevano operai, contadini e manovali come personaggi principali dei romanzi. Solo che alla fine l’autenticità era poca. Era pur sempre un intellettuale (lo scrittore) che immaginava il proletario da esaltare e da rendere epico. Scrittori come Ottiero Ottieri, Lucio Mastronardi, Romano Bilenchi e Luciano Bianciardi (oltre ovviamente lo stesso Volponi) hanno tentato di santificare la classe operaia ma l’unica cosa che hanno prodotto è un canone “operaistico”. Senza peraltro riconoscere il giusto debito alla letterarietà della lingua che sfruttavano (forse con l’eccezione di Bianciardi). Trevisan è più onesto anche nel suo essere sinceramente scrittore. Insomma il suo è un caso più unico che raro di “operaio” che si fa sedurre dalla lingua letteraria e si fa autore. Ecco perché parlo di Works. Può tranquillamente diventare un classico della nostra letteratura contemporanea. Mentre aspettiamo che venga inserito nel canone, però, possiamo leggerlo con gusto per capire cosa è davvero il lavoro. Senza falsi miti, senza filtri ideologici. Perché Trevisan lo tratta per quello che è in tutta semplicità. Ora mi chiedo soltanto che fine abbia fatto quello studente lavoratore, tanto bravo quanto simpatico. Chissà se è rimasto orgogliosamente operaio o se ha fatto “carriera”.

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