Il prossimo 25 ottobre saranno passati trent’anni dalla morte di Herman Roth. A portarlo via è stato un tumore al cervello. Si è spento al St. Elizabeth Hospital di Elizabeth nel New Jersey. Al suo capezzale c’era il figlio, Philip Roth. Prima di andare in pensione Herman aveva trascorso tutta la sua vita adulta (ben 32 anni) in una società di assicurazioni. Come il figlio Philip, anche Herman era nato e cresciuto a Newark. L’anonima città americana resa immortale proprio dai romanzi dell’autore de Il lamento di Portnoy. Ormai anche Herman è immortale. Proprio come Newark. La sua anonima esistenza, quel suo vivere tenacemente attaccato al comune sentire di chi ha contribuito a far crescere il sogno americano, non meriterebbe un luogo privilegiato nella memoria collettiva. Eppure questo funzionario ebreo delle assicurazioni con la passione del baseball è diventato un eroe letterario. Probabilmente non “suo malgrado”. Al contrario. Forse egli stesso ha tramato a lungo a questo scopo. E chissà che pirandellianamente non sia stato lui stesso, ormai già morto e sepolto, a imporre al figlio (con metodi ovviamente non convenzionali) di riportarlo in vita sulla carta. A trent’anni esatti dalla sua morte ho letto Patrimonio. Questo “romanzo” fortemente autobiografico è stato ripubblicato da Einaudi  nel 2007 con la traduzione di Vincenzo Mantovani. La stessa (ottima) traduzione che ritrovo nell’edizione dei Meridiani Mondadori (secondo volume) che ho sotto gli occhi. La trama non val la pena nemmeno di essere raccontata. Phil scopre che il padre (vedovo da anni) ha dei singolari disturbi alla testa. Il referto è impietoso. Si tratta di tumore. E il testo racconta il lungo viaggio verso il distacco tra i due. Lo scrittore, a quel punto, non è più figlio. È diventato padre di un vecchietto sperduto e impaurito, ma ancora fortemente attaccato alla vita. Ed è ovviamente diventato anche “creatore” del personaggio Herman.

Nei momenti più delicati e drammatici della regressione di Herman, Philip Roth si accorge che il “patrimonio” che riceverà in eredità dal padre non è costituito dagli oggetti di famiglia, non dai segreti (sempre di famiglia) o dagli insegnamenti. Sono proprio le sue feci, le sue deiezioni, che il vecchietto ha abbandonato in giro per il bagno complice una improvvisa diarrea. Ha capito che il patrimonio è proprio quel darsi completamente all’assistenza del padre senza pensarci. “E non perché pulire fosse il simbolo di qualche altra cosa, ma proprio perché non lo era, perché non era altro, né più né meno, della realtà vissuta che era. Ecco il mio patrimonio: non il denaro, non i tefillin, non la tazza per farsi la barba, ma la merda”.

Archiviato anche il titolo e il senso ultimo dello sforzo letterario di Roth, passo a una veloce considerazione. Il racconto degli ultimi anni della vita di Herman Roth è un romanzo a tutti gli effetti. Perché il figlio Philip sceglie di usare il linguaggio letterario del racconto. Anzi, tra i tanti possibili ne sceglie quello più raffinato. E non si ha mai l’impressione di subire l’urgenza del racconto di chi non riesce a gestire il suo personale materiale “umano”.

Ecco perché consiglierei  a chi insegna scrittura creativa di inserire questo romanzo tra i “libri di testo”. La materia biografica viene infatti dominata, controllata, ma mai anestetizzata. Roth usa tutti i suoi mezzi  del mestiere per rendere quella vita un racconto. E non è facile. Al contrario. Non c’è niente di più difficile. Perché l’autore non è imparziale e non può esserlo. E non può nemmeno essere sereno. Il lettore se ne accorge. E applaude a tanto autocontrollo. Un esempio? Eccolo. Nel momento in cui capisce che il decadimento fisico del padre può portarlo a perdere non soltanto l’autonomia ma anche la lucidità Roth gli propone di firmare il testamento biologico. Alla fine di una paziente e delicata conversazione telefonica il padre accetta. E il commento del narratore (qui anche co-protagonista) rende la misura di quanto sia bravo uno scrittore di razza a trasformare il particolare in universale e viceversa. “Invece di sentirmi il figlio dell’assicuratore, mi sentivo un assicuratore io stesso, un assicuratore che aveva appena venduto la sua prima polizza a un cliente che avrebbe potuto vincere solo se fosse morto”.

Se un giovane e aspirante scrittore volesse”allenarsi” forse dovrebbe prendere materiale autobiografico e scomporlo come fa Roth in tante singole immagini e scene da montare con un ritmo quasi cinematografico. Dove si passa senza apparente soluzione di continuità da un momento all’altro distanti poche ore come svariati anni. Solo così potrà, il giovane aspirante romanziere, capire che la scrittura si deve mettere al servizio di una narrazione fatta per immagini e momenti che poco hanno a che fare con il flusso della vita e con la sua semplice cronaca.

 

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