Ci sono scrittori (nostri contemporanei) che seguiamo da sempre. Se un loro libro ci coinvolge e ci appassiona stabiliamo subito un rapporto fiduciario con loro e torniamo a giudicarli a ogni nuovo libro. Alcuni col tempo ci deludono altri continuano a riempire gli scaffali delle nostre biblioteche casalinghe. Ogni tanto capita di constatare: “E’ tanto che X non sforna un titolo nuovo!” E ci si mette in tranquilla attesa. Prima o poi, ne siam certi, il libro arriva. Per la nostra felicità di lettori fedeli. Io è da tempo che aspettavo di leggere un nuovo testo di Daniele Del Giudice. Sono tanti anni che non pubblica, mi trovavo a pensare. E invece è arrivata la doccia fredda. Mi è capitato sotto gli occhi un bella e commovente testimonianza di un suo amico, pubblicata nelle pagine culturali di un quotidiano, dove si racconta della sua malattia e del suo isolamento in una casa di cura veneziana.

Un isolamento ben diverso dal nostro, alle prese con l’emergenza coronavirus. L’isolamento di chi non può più usare le parole e non può più ricorrere alla memoria. Parole e memoria del vissuto che sono gli ingredienti indispensabili per chi vuole fare della scrittura un’arte.

Le parole di Ernesto Franco, la sua devozione, il suo tributo all’amico, sono tra le cose più belle che abbia letto negli ultimi tempi. E come primo e scontato effetto mi hanno portato a riprendere in mano uno dei testi più rappresentativi della perizia narrativa di Del Giudice. Ed è così che mi sono riletto Atlante occidentale (come tutti i suoi titoli pubblicato da Einaudi, di cui Del Giudice è stato a lungo consulente editoriale).

Scoperto da Italo Calvino, Daniele Del Giudice (romano, classe 1949) esordisce con Lo stadio di Wimbledon nel 1983 (con il quale ottiene già un riconoscimento importante come il Premio Campiello opera prima). Tra i suoi romanzi (pochi, in verità) si ricordano soprattutto Atlante occidentale (1985) e Nel museo di Reims (1988) e due raccolte di racconti Staccando l’ombra da terra (1994) e Mania  (1997).

Pensando alla nostra situazione di oggi (schiacciati da una pericolosa pandemia) e all’isolamento di Del Giudice, il romanzo Atlante occidentale  appare quanto meno profetico. Si esalta, nel romanzo, la capacità dello scienziato di analizzare il reale con uno sguardo davvero profondo ma allo stesso tempo si paga un tributo davvero alto alla luce che sui misteri del reale soltanto l’occhio e la sensibilità di uno scrittore riescono a produrre.

Il romanzo racconta dell’insolita amicizia che lega un giovane fisico impegnato nel grande laboratorio sotterraneo, collocato tra Francia e Svizzera e gestito dal Cern, e un anziano scrittore in odor di Nobel.

Non devo fare la recensione del libro (che comunque posso sicuramente collocare nella mia categoria preferita di “classico contemporaneo”). Vorrei semplicemente confessare che mi sono commosso nel notare come il giovane (allora) scrittore tratteggiava un personaggio che è nient’altro che il paradigma dello scrittore saggio, anziano, e “già immortale”.

Alcuni passaggi descrivono un Epstein che è la quintessenza del grande scrittore e che in fondo regalano al lettore l’identikit dello scrittore ideale e di quello che è il compito e la vocazione di chi vive di parole.  C’è per esempio l’incipit del nono capitolo che oggi risulta fin troppo calzante per la perizia letteraria di Del Giudice stesso. “Di tutte le cose che col passare degli anni si irrigidiscono, e bisogna tenere in esercizio, Epstein aveva curato. La precisione. Non la pignoleria, che è un restringimento del campo visivo né la perfezione che ne è l’allargamento illimitato, ma la precisione, come si allena un muscolo”. E aveva anche sottolineato che in fondo il lavoro dello scrittore finisce per essere “una strage di possibilità a ogni pagina, cimiteri di oggetti e di gesti, immagini e pensieri smontati e appoggiati là, a terra di fronte a ciò spuntava”. Un percorso pieno di cadaveri, di possibilità mancate, di personaggi prima partoriti e poi eliminati. Uno scenario che soltanto l’ingenuità del lettore poteva pensare “perfetto” nella sua armonia.  E che invece  risultava assolutamente doloroso per uno scrittore ripercorrere a ogni rilettura.

In fondo è questo l’aspetto più commovente di questa rilettura di Atlante occidentale: constatare che in esso ci sono tutte gli elementi che compongono l’arte del romanzo e la figura del grande romanziere. E solo un grande scrittore, poi, è capace di denunciare i propri limiti. O meglio quelli delle parole. Come quando il vecchio Epstein spiega al giovane scienziato cosa sia la luce per uno scrittore. Per descriverla, spiegava il futuro Nobel, “ci vogliono tanti aggettivi”. Ben diversa era la situazione degli altri oggetti. Che “si possono descrivere per il loro funzionamento, per la loro consistenza, per ciò cui somigliavano”. E la luce no. La luce era un vero paradosso per lo scrittore. “Potrei dirle – spiegava Epstein al giovane fisico – luce pallida, luce meridiana, luce fredda, luce struggente: la luce resta sempre uguale a se stessa, cambiano soltanto i sentimenti. E poi, di qualunque tipo di luce io le parlassi, sicuramente lei ne penserebbe un’altra, diversa da quella che sto pensando io. E’ così strano, la luce è la cosa più comune che ci sia, molto più comune del legno e del metallo, eppure è la più privata come se lei o io o chiunque altro producesse la propria”.

Insomma Del Giudice ci regala un personaggio che ci porta per mano nei segreti della scrittura, quindi in ultima analisi in quel laboratorio sotterraneo e segreto (come il Cern di Ginevra) dove riuscire a cogliere la traccia dell’essenza della letteratura, immortalata in un brevissimo gesto, in un fugace accenno.

Ancora più profetiche, però, e in qualche modo inquietanti le parole che usava lo stesso Epstein nel suo ultimo tentativo di romanzo. Un abbozzo dove un personaggio arriva a confessare: “Lui sapeva che non avrebbe più potuto accucciarsi tra le parole come un animale nella tana”. Che per il vanesio Epstein è soltanto un vezzo per “pescare complimenti” dai suoi ammiratori, per noi, invece, lettori orfani della penna di Del Giudice, un presagio più che funesto.

 

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