L’isolamento che viviamo in questi giorni, il nostro affacciarci alla finestra e interrogare lo scenario sempre uguale e desolato che ci troviamo di fronte nella speranza di qualche traccia di cambiamento mi hanno riportato alla mente la vicenda del tenente Giovanni Drogo. L’ufficiale nato dalla fantasia di Dino Buzzati ha già passato quello che noi stiamo vivendo. Il protagonista del Deserto dei tartari (Mondadori, 1960) è sempre stato lontano dal nostro comune sentire. Intuivamo nella sua parabola esistenziale un monito e un messaggio ben importante, però ci tenevamo alla larga da parallelismi di ogni sorta. Il suo, in fondo, dicevamo, è stato un isolamento volontario. Più e più volte ha avuto nel corso della sua carriera la possibilità di “scappare” dalla Fortezza Bastiani, l’avanposto dove ha trascorso praticamente tutta la sua vita militare. Eppure il tenente Drogo (poi passato, col tempo appunto, al grado di capitano) non ha mai rinunciato a coltivare il sogno di gloria e a sperare che quella lunghissima snervante monotonia potesse sublimarsi in una guerra aperta col nemico. Evito qui di raccontare come va a finire la storia di Drogo. Nella speranza di ispirare a qualcuno la lettura di questo autentico capolavoro dirò soltanto un paio di cose sul libro e sulla sua storia.  Per tutta la vita Buzzati ha dovuto schivare i colpi della critica che riducevano i suoi sforzi letterari a scimmiottamenti di Kafka. No. Non ci sono scimmiottamenti. E tanto meno kafkiani. L’assurdità della vita non è un monopolio dell’autore praghese. Tutt’altro. Buzzati declina con un suo affatto originale stile la parabola di personaggi che sembrano precipitati in una realtà incomprensibile e che durano una fatica titanica per decifrarli. Drogo è uno di questi. La carriera militare lo porta, giovane ufficiale, in uno degli avamposti meno ambiti del confine di Stato. Gli echi della guerra sono solo ricordi lontani, ma il pericolo è sempre dietro l’angolo. Dalla ridotta della fortezza si vede soltanto un triangolo di piana desertica oltre la barriera delle montagne. Laggiù è il regno di un nemico che non ha volto. Li chiamano tartari ma solo per dare un nome esotico a un nemico invisibile. La vita nella fortezza trascorre tra vuoti riti e massacranti esercitazioni. Le stesse regole militari rischiano di essere il pericolo maggiore perché in assenza di un nemico anche la disciplina rappresenta un’oscura minaccia.

Rileggere oggi Buzzati è stato per me equiparabile a un esercizio di yoga che dopo il primo iniziale sforzo fisico ti assicura un ritrovato equilibrio interiore. La sua scrittura è estremamente elegante. La sua è la voce di un narratore sempre misurata e scandita quasi con armonia e con un ritmo suadente che ci conduce attraverso tutta la vita di Drogo senza alcuna fatica. E il suo destino diventa quasi catartico ai nostri occhi. Agli occhi di chi, insomma, in questo momento è costretto a lottare contro un nemico invisibile. Ed è costretto a farlo dentro le mura della propria “fortezza” domestica. Come Drogo sopra le torri merlate dell’avamposto, anche noi scrutiamo lo scenario quasi innaturale che si presenta ai nostri occhi ogni volta che ci affacciamo alla finestra. A differenza del giovane e ambizioso tenente noi abbiamo la televisione e internet che ci portano in casa fiumi di notizie e di aggiornamenti sulla guerra in corso contro i nostri “tartari”. Eppure il nostro senso di inadeguatezza non viene certo scacciato dall’informazione aggiornata. E’ un tempo speciale questo – dicono tutti. Un tempo che ci renderà più forti, di sicuro migliori. Dobbiamo con stoicismo affrontare la condizione di carcerati e mettere a dura prova la nostra pazienza. Cresciuti in una società che ha fatto della frenesia un valore, dobbiamo riscoprire i vantaggi e la dolcezza della lentezza. La lettura di Buzzati, in questo senso, è un efficacissimo aiuto.

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