l prezzo del petrolio continua a precipitare, ed ammonta ormai solo al 40% della media dello scorso anno, cioè più o meno 40 dollari al barile rispetto ai 103 del 2013-14. Ciò nonostante, noi cittadini tardiamo come al solito a goderne i benefici. In molte stazioni di servizio, specie in autostrada e nelle grandi città, il prezzo della verde supera ancora 1,7 E al litro, contro i poco più di 1,8 dei momenti più cari (un ribasso inferiore al 10%!). La maggior parte dei distributori la vende tra 1,6 e 1,7, i più virtuosi sono scesi sotto i 1,6, ma per trovarne qualcuno sotto i 1,5 o addirittura sotto i 1,4, come dovrebbe essere possibile nelle condizioni attuali, bisogna cercarli col lanternino. Sappiamo tutti che la maggior parte del totale è costituito da tasse, ma se si fa un confronto tra i prezzi alla pompa dell’epoca, ormai remota, in cui il greggio era quotato ai prezzi attuali, si vede che ci sono ancora ampi margini di ribasso. Speriamo che le compagnie si adeguino, e presto, e soprattutto auguriamoci che il governo non approfitti dei ribassi per aumentare per l’ennesima volta le accise.

Comunque sia, per noi il petrolio a 40 dollari è una buona notizia: per quanto i ribassi alla pompa non siano ancora quelli che devono essere, spendiamo di meno a spostarci in auto, il riscaldamento nel prossimo inverno dovrebbe risultare più a buon mercato (i prezzi del metano seguono sempre quelli del greggio, anche se non in maniera proporzionale), sui prezzi dei prodotti che compriamo, soprattutto su quelli alimentari che viaggiano quasi tutti su gomma, il trasporto dovrebbe incidere di meno.

Ma se per l’Italia e gli altri Paesi consumatori il ribasso è, almeno in prima battuta, un vantaggio, per buon parte dei Paesi produttori, la cui economia è basata essenzialmente sulla esportazione di idrocarburi, potrebbe rivelarsi un dramma, aggravando una situazione già adesso assai poco brillante. Parliamo in primo luogo della Russia, che deve affrontare contemporaneamente una caduta del rublo, le sanzioni occidentali per l’aggressione all’Ucraina e adesso il drastico taglio delle sue entrate di valuta estera. L’economia si è già contratta quest’anno del 5%, ma se continuerà l’attuale tendenza, il 2016 sarà molto peggio. Ma se la Russia ha, per così dire, le spalle larghe, disponendo anche di altre risorse ed avendo accumulato negli anni delle vacche grasse forti riserve, e non corre dunque il rischio immediato di una rivolta popolare contro il taglio dei sussidi e il peggioramento del tenore di vita, c’è chi sta molto peggio: Venezuela, Algeria, Nigeria, Angola, Iraq, Iran, dove le risorse alternative scarseggiano o sono addirittura assenti e il taglio delle entrate potrebbe addirittura compromettere una (non sempre solida) stabilità politica. Perfino le ricche monarchie arabe del Golfo, dove tra l’altro l’estrazione del petrolio costa molto meno che altrove e che si sono rifiutate di tagliare la produzione per mettere in difficoltà i concorrenti, potrebbero alla lunga avere dei problemi, perché per tenere tranquilla la popolazione distribuiscono generosi sussidi a pioggia che vanno bilanciati con entrate in costante riduzione. Per nostra consolazione, dobbiamo aggiungere che a soffrire sarà anche il Califfato, che già doveva vendere il petrolio con cui finanzia le sue milizie clandestinamente a prezzi scontati e ora incasserà anche di meno.

L’impoverimento, se non la bancarotta (è il caso soprattutto del Venezuela) di tanti Paesi non può non avere, nel medio termine, un impatto negativo sul commercio mondiale e in particolare sui grandi esportatori, tra cui per fortuna figura ancora anche l’Italia. E’ una specie di circolo vizioso, che se vogliamo si applica anche ad altre materie prime che soffrono soprattutto per la riduzione della domanda da parte cinese; ed è un circolo vizioso che, riducendo il volume degli scambi, non gioverà certo allo sviluppo. Se per noi è un bonus, pertanto, il greggio ai prezzi attuali va considerato uno dei tanti elementi di incertezza dell’economia mondiale.

 

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