Ogni qualvolta leggo che un cittadino che, per difendere se stesso, i propri familiari o anche soltanto i propri beni, viene messo sotto processo – talvolta addirittura con l’accusa di omicidio volontario se il rapinatore ucciso è colpito alla schiena, mi viene una gran rabbia: se è in regola con la legge (vedi porto d’armi e possesso legittimo dell’arma) deve avere il diritto di difendersi, soprattutto se numericamente è in condizioni di inferiorità, perché supplisce semplicemente a una mancanza dello Stato che non gli ha assicurato la protezione cui avrebbe diritto. Ancora più forte è la rabbia quando vengono messi sotto accusa elementi delle forze dell’ordine che per fermare un assassino, un rapinatore o anche uno che cerca di sottrarsi ai controlli in un momento di emergenza fanno fuoco e feriscono o uccidono. Penso a quello che succede all’estero, nei casi di terrorismo (o presunto tale). Quando qualcuno, che gridi Allah Akhbar o no, si lancia contro qualcun altro con un’arma, anche da taglio, in mano, viene immediatamente abbattuto dai militari o poliziotti presenti, senza che questi debbano rispondere per questo alla giustizia. Al contrario, di solito vengono elogiati o in certi casi addirittura decorati. C’è stato, è vero, di recente il caso di un sergente dell’esercito israeliano processato e condannato per avere ucciso un terrorista palestinese: ma questi era già stato abbattuto, giaceva a terra ormai incapace di nuocere, e dargli il colpo di grazia è stato sicuramente un reato. Ma da noi le restrizioni imposte all’uso delle armi a polizia e carabinieri vanno spesso contro al buonsenso, o meglio sarebbero adatte a un Paese pacifico con criminalità vicino allo zero. A mio avviso, queste restrizioni riducono di molto l’effetto deterrente che ha sui criminali – politici e comuni – un possibile intervento delle forze dell’ordine, e quindi vanno a detrimento della cittadinanza intera.
Negli anni di piombo chi scrive è stato per cinque anni nel mirino delle Brigate rosse ed ha usufruito di una scorta che lo accompagnava al lavoro al mattino e a casa la sera. Ma chiaccherando con questi bravi agenti, ho avuto spesso l’impressione che se fossimo davvero stati attaccati, avremmo anche potuto soccombere: perché quando si è in guerra – e di guerra si trattava allora come oggi – è buona regola sparare per primi e i miei protettori non erano autorizzati a farlo. Perciò, come i tanti cittadini che hanno ragione di temere di essere attaccati, ho pensato bene di “integrare” la mia difesa con i miei mezzi: tenevo una pistola nel cassetto del mio ufficio alla “Notte” (particolarmente vulnerabile perché vicino all’ingresso) e un’altra sul comodino da notte (abitavo in una casa in cui non era poi troppo difficile entrare).
Adesso posseggo più soltanto fucili da caccia, un po’ più difficili da usare per legittima difesa soprattutto se custoditi scarichi, come prescrive la legge, in un armadio blindato. Tuttavia, se mi trovassi nella situazione di uno di quei concittadini che hanno fatto ricorso alle armi e poi sono stati messi in stato di accusa (per fortuna, ultimamente, mi pare ci sia una maggiore inclinazione a proscioglierli), non esiterei a fare altrettanto. Non è questione di Far West o non Far West, è questione di istinto di conservazione, una caratteristica degli esseri umani grazie al Cielo non ancora condannata dalla legge. In altre parole, messo di fronte all’alternativa di sparare o farmi sparare, non esiterei.

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