Non appartengo alla destra anticomunista, perché anticomunista non lo sono mai stato. Ho sempre apprezzato, al contrario l’epopea della rivoluzione bolscevica, il suo ideale di emancipazione umana e di riscatto dei lavoratori, dei dannati della terra. Conosco a memoria i testi dei CCCP, ho divorato le biografie di Lenin, Stalin, Fidel Castro, Che Guevara, i libri di Costanzo Preve, apprezzo certa storiografia marxista e su di essa mi sono formato.

Proprio in ragione di quanto detto, ho in estrema antipatia la sinistra liberal e radical chic figlia dei sottoprodotti culturali dell’Occidente odierno, un corpo alieno innestatosi a suon di post-sessantottismi, ribellismi anarcoidi e fantomatiche “spese proletarie” nel seno del socialismo italiano, finendo oggi con l’essere una delle principali promotrici del pensiero unico politicamente corretto, spalla culturale della globalizzazione economica e sociale che oggi l’Europa e il mondo vivono.

Da sempre vivo la giornata in memoria delle Foibe con sentimenti contrastanti. Da una parte vi sono esasperazioni anticomuniste sempre latenti, capaci ancor oggi di rinfocolare buffe e fantomatiche lotte al nemico “rosso”, quando oggi il nemico è di tutt’altro colore e non sta certo in qualche nazione comunista sopravvissuta al crollo del Muro di Berlino. Un sentimento spesso cieco e capace di fare il paio con l’antifascismo, accomunandosi ad egli nella sostanziale inutilità e nell’incapacità di comprendere che oggi non viviamo né in un sistema fascista né in un sistema comunista, bensì in un sistema capitalista globalizzato, le cui storture sono figlie della sua stessa storia e della sua impalcatura.

La giornata delle Foibe è tradizionalmente la giornata dell’antifascismo e dell’anticomunismo, una giornata della memoria piena di ottusità, di incomprensioni, spesso di stupidaggini. Abbiamo accennato all’anticomunismo sovente insopportabile e fuori luogo, ma è giusto pure soffermarci sull’idiozia di un antifascismo di contorno, che fa della negazione della memoria verso vittime civili un proprio cavallo di battaglia, della selezione della memoria la propria forza.

A suo supporto vi è un sistema di istruzione e cultura tarato quasi esclusivamente sulle sue necessità, con una storiografia accademica che da circa settant’anni ci presenta il fatto che “anche gli italiani hanno commesso dei crimini in Jugoslavia” come chissà quale novità dell’anno, chissà quale straordinaria anticipazione, quando in realtà è da decenni e decenni che gli opifici della sapienza istituzionalizzata ci rilanciano questo mantra.

Il problema è che la violenza non è mai giustificabile e nulla vieta di ricordare i lutti di entrambe le fazioni, senza per questo scendere in pericolose e partigiane selezioni, per altro inutili dopo diversi anni dalla fine del conflitto, sintomo per altro di un infantilismo che mai ha abbandonato certi lidi politici de sinistra, spesso autoproclamati detentori del meglio della cultura italica ed europea, del sapere giusto, democratico e altre belle panzane.

C’è anche un’altra questione, eminentemente politica. L’alimentazione di questo facile dibattito, che fa spesso della rimozione del dramma delle foibe il proprio punto cardine, è rafforzata da quello che fu il ruolo di Tito seguente allo strappo con Stalin e con i paesi gravitanti attorno all’Unione Sovietica dopo il 1948. Da quell’anno l’Occidente cominciò a valutare l’ipotesi di vedere Tito non più come un dittatore nemico, bensì come un potenziale alleato nella lotta all’URSS, con patti più o meno espliciti e finanziamenti al paese jugoslavo, in ottica antisovietica.

Solo la propaganda più ottusamente anticomunista ha continuato a dipingere l’ex partigiano slavo come un fiero nemico dell’Occidente, ma la realtà era ben diversa. Nei piani d’invasione da est e nelle politiche di prevenzione di uno scontro armato con l’Oriente, infatti, sovente la Jugoslavia era considerata come un paese potenzialmente amico, e nei fatti essa era tra le guide del novero delle nazioni non allineate.

Conoscendo il sostanziale allineamento di moltissima storiografia istituzionale alle necessità diplomatiche, politiche e geopolitiche contingenti, emerge chiaramente quanto in nome della conservazione di una alleanza sia stato possibile rimuovere qualsiasi tentativo di indagine storiografica seria, non più sospinto dalle necessità della delegittimazione di un avversario.

Al contrario invece i miti neri sul comunismo e sulle politiche sovietiche continuavano senza problemi, tra anticomunismi espliciti e tentativi maldestri di “superamento del socialismo”, promozioni di socialdemocraticismi, socialismi dal volto umano, ombrelli Nato, comunismi americani e via discorrendo, anche “grazie” all’opera di revisionismo ed europeizzazione promossa proprio dalla cultura dipanata dal mondo degli ex sessantottini, ora tromboni in qualche trasmissione di divulgazione, in qualche redazione di giornale o in qualche dipartimento universitario.

Insomma, lo sterile antifascismo italiano ci ha spacciato la ricerca della “verità” sui crimini italiani come un’opera di chissà quale coraggio, levatura e novità, quando a ben vedere di processi e controprocessi ai danni dei vinti sono pieni gli scaffali e le cronache, pure da molto tempo e con florilegio di autoincensamenti. Vogliono proporci il loro lottare al fianco del partigiano jugoslavo come una sorta di nostalgica e giusta fedeltà all’ex causa comunista, quando la geopolitica e i rapporti diplomatici dell’epoca ci raccontano altro.

Sia mai che forse stiamo parlando della solita battagliuccia comoda ed immodificante dell’antifascismo nostrano per intrattenere qualche ribellino liberal d’archivio storico e che continuare questa sterile contrapposizione è quantomeno inutile e dannoso? Se proviamo ad andare oltre alle pretese di incarnare chissà quale “spirito rivoluzionario” di questo o quel centro sociale, ci accorgiamo che di rivoluzionario in certi atteggiamenti c’è davvero ben poco.

Consegniamo i morti alla storia e alla memoria dei loro cari con rispetto e lasciamoci una volta per tutta alle spalle questi fastidiosi giochini tra giusti e meno giusti. Ne va pure della nostra capacità di sopportazione della noia.

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