Con l’uscita della notizia sul gap salariale del 15% in sfavore dei migranti che lavorano in Italia è arrivata la certificazione di un fatto lampante, ovvero la l’esistenza di una grande quantità di manodopera straniera reclutabile, spesso disposta a svolgere lavori anche senza i dovuti riconoscimenti economici ottenuti dopo anni e anni di lotte salariali nel nostro paese.

Una situazione preventivabile tanto tempo fa, su cui tuttavia anche la sinistra più radicale ha sempre taciuto e con quella governativa impegnata, spesso e volentieri, a dipingere il quadro con una tranquillità assoluta o con sollievo, quasi fosse un merito o una situazione di cui andare fieri, nel nome della solita teologia laica del buon migrante.

In questa situazione va pure fatto notare quanto i settori più colpiti siano quelli che citammo in un articolo risalente al febbraio 2014, proprio perché ben prima di questa ondata migratoria senza precedenti era già facile riscontrare quanto fosse pericolosa l’immissione di manodopera straniera non sindacalizzata in posti di lavoro quali quelli ristorativi, alberghieri o della costruzione immobiliare, in cui la mole di energie anche umane necessarie è talmente grande che di frequente i lavoratori diventano dei numeri, con mesi e mesi di lavoro quotidiano senza sosta.

Lavori in cui del resto raramente si prova il piacere di incontrare la solidarietà o quantomeno la presa di coscienza del grande sindacato, sempre piuttosto lontano dal valutare di persona le conseguenze di una politica di accoglienza senza freni, incoraggiata anche da molti suoi rappresentanti in un cortocircuito terribile per chi dovrebbe fare della difesa del lavoro e della dignità dei lavori il proprio punto di forza.

Se a questo aggiungiamo una sinistra politica liberal che al posto di vedere e cercare di arginare simili scenari ci dice che gli immigrati fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare abbiamo pronta la frittata del disastro, quando in realtà, anche per le questioni esposte sopra, gli immigrati non fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma per necessità o per cause di forza maggiore spesso lavorano in condizioni che, giustamente, un italiano medio preferisce rifiutare, volendo evitare di riassaporare dopo secoli l’acre sensazione dello schiavismo.

Insomma, ci troviamo per le mani una sinistra passata dal difendere il lavoro al dipingere col mantra dell’accoglienza e dei diritti lo sdoganamento della competizione al ribasso. Abbiamo una sinistra che sull’abbattimento dei confini gioca finendo col farci vivere il peggio della globalizzazione senza freni, dell’indistinto e dell’assenza di regole, dove poi a guadagnare è sempre il più forte.

La verità è che in un mondo senza confini e senza frontiere, con una immigrazione senza sosta e con una competizione al ribasso senza freni a guadagnarci sono solamente coloro i quali possono permettersi di godere di questo gioco, non certo i lavoratori dipendenti autoctoni, che infatti non casualmente stanno volgendo sempre più lo sguardo dalla sinistra cercando giustamente la propria rappresentanza in altri lidi, capaci di valutare concretamente i danni di un esodo ormai insostenibile.

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