I tentativi di oscurare Alain De Benoist, di chiedere minor partecipazione mediatica a chi critica l’immigrazione sono ridicoli e ricordano le reazioni dell’aristocrazia di Versailles poco prima della Rivoluzione.

Sono il disperato tentativo di una élite culturale di nascondere la polvere sotto al tappeto, di rimediare all’enorme distanza tra il pero accademico e il popolo. Fenomeni ridicoli perché provenienti da chi, della cultura, dovrebbe fare un mestiere e oggi non riesamina o ridiscute nulla. Ridiscussione che sta alla base dello studio storico e della crescita filosofica.

Godiamo di un ceto accademico che oltre a non essere riuscito a comprendere i principali pericoli del nostro tempo sembra voler a tutti i costi impedire pure a pensatori più capaci e visionari di parlarne alla gente.

Un ceto che dietro i proclama sulla “democrazia” e la “Costituzione Antifascista” sembra rimasto ad un ideale settecentesco di partecipazione politica: “tutti i cittadini hanno uguali diritti, ma decidiamo noi chi è cittadino e chi no”.

Non c’è nemmeno il coraggio di ascoltare un pensatore come De Benoist che, a differenza di tanti soloni da cattedra,  ha previsto con lustri d’anticipo il destino delle classi subalterne europee. Classi per altro abbandonate da quella cultura liberal e cosmopolita che tanti narratori d’accademia non esitano ad elogiare e riproporre.

Dopo i fallimenti del ’68, dopo l’autoreferenzialità dei suoi cantori, dopo decine e decine di previsioni sbagliate da parte di una intellighenzia naturalmente organica, dobbiamo sopportare pure i tentativi di oblio dei suoi eredi.

Prima capiamo che il principale problema sta nel mondo della cultura e dell’istruzione e prima ci leviamo di dosso la polvere e il ritardo che abbiamo accumulato in questi anni. Nel frattempo, viva De Benoist e viva il pensiero critico.

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