Fabian Marcaccio (Rosario di Santa Fè  1963) è un argentino per parte di madre e con padre italiano, naturalizzato americano perchè dall’85, ormai ventiduenne, è a New York dove è arrivato come ex studente di filosofia deciso a  fare l’artista. E sicuramente   artista lo è diventato e  capace soprattutto di  rappresentare il suo e il  nostro tempo. D’altronde che senso ha fare arte senza il respiro della propria epoca e della storia che ci avvolge? Dico questo perchè in Italia ci sono tanti artisti che scimmiottano senza capire che la funzione dell’arte è precisa e si connatura con il proprio tempo e ci sono tanti critici giornalisti, buontemponi, che scrivono senza dire e capire nulla di arte, anzi raccontano l’arte a modo loro  e in chiave soft.  Ciò non serve proprio a nulla, né all’artista, né al mercato, né al pubblico. E’ così che Fabian Marcaccio è di questi tempi a Milano alla Jerome Zodo Contemporary(Via Lambro 7 ) con una mostra personale dal titolo “Loveless: variations paintants”aperta fino al 7 giugno dove espone le opere più recenti di pittura e scultura, a cui aggiunge un mix di tecniche dall’esito davvero esplosivo: digitale, fotografia e architettura. Mostra forte, drammatica, di grande respiro internazionale. Paintant, termine coniato dall’artista, è un’opera mutante, che grazie alla forza espressiva dei diversi linguaggi interagisce con lo spazio, fino a cambiarlo. L’ artista si pone di fronte ad esso nel momento della creazione, agendo. Corpi che mutano, mutanti li chiama lui, corpi oggetto ormai privi della sublimazione dell’amore; vi lavora attorno così come Burri lavorava con le bruciature di sacchi e plastiche, man con Marcaccio la comunicazione è spinta ancora di più verso l’eccesso: verso l’uso smodato della materia che Fabian manipola con disinvoltura e forza ma anche creatività drammatica e sanguinaria. Il silicone, tanto, da impastare, da far corpo, e da sbordare tanto da far apparire degli squarci quasi danteschi  come nel canto XXVIII dell’Inferno,   steso a fatica con la spatola sulla tela  non è mai abbastanza, perchè va sentito con tutte le sfumature dei sensi. Strati spessi di corda di Manila sono avvolti attorno ad un telaio di tavole grezze, creando una maglia che cattura in un groviglio a metà tra il naturale e l’artificiale. E sorprende questa tecnica che caratterizza i lavori di questo artista ex filosofo, intanto perchè fortemente  vicina alle tematiche sociali ed umane e quindi ai fatti e alla storia del nostro tempo, ( vedi gli scontri a Ruby Ridge e Waco del 1992 nella vallata dell’Idaho degli Stati Uniti, poi l’uccisione tra la folla di quattro imprenditori americani a Falluja, infine il massacro alla Columbine High School ) poi perchè racconta il corpo  distrutto, ferito, squarciato, proprio attraverso l’uso di questa  tecnica. Guardare questi mutanti,questi trans-genici dell’arte,  si rimane sbigottiti e a tratti senza fiato, poi si è come restituiti all’umanità dolente che  ci ruota intorno, a quel dolore che Marcaccio ci racconta  inesorabilmente.

Carlo Franza

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