Poteva  questo sconosciuto Bartolomeo Pietromarchi curatore del Padiglione Italia alla Biennale 2013 fare meglio ? Assolutamente no. L’avevamo già da tempo pronosticato e così è stato. Il collega Vittorio Sgarbi  sul nostro Giornale ha scritto che il Padiglione Italia è un cimitero. Vero. Verissimo. Sono talmente fuori luogo e fuori posto  gli inviti del Pietromarchi che rimandano al medioevo dell’arte. Altro che iniezione di fiducia in una Biennale che pure è antidepressiva come sostiene il Presidente dell’istituzione veneziana Paolo Baratta. Così che il Padiglione Italiano è una vera e propria bottega medioevale, antiquata, passatista, niente affatto neorinascimentale. Anzi un vero e autentico lazzaretto. Quest’arte non rappresenta affatto quest’Italia a pezzi, come recita la canzone vincente del Sanremo 2013. Bastavano queste sette antinomie (suono/silenzio, storia/corpo, veduta/luogo, prospettiva/supeficie, familiare/estraneo, sistema/frammento, tragedia /commedia) a portare aria fresca nelle sette sale del Padiglione italiano  dove espongono i 14 artisti invitati ? Il Pietromarchi  si è comportato come un professore di lettere di scuola media superiore che ha imbastito i suoi saperi attorno a poetiche, generi, generazioni, linguaggi e visioni, ecc., e dunque, niente nuovo, niente creatività, niente futuro, niente storia, qui tutto è molto scolastico, molto libresco.  Il titolo “Viceversa” forse avrebbe voluto significare un voltar pagina, ma così non è stato. Ecco le “macerie” di Massimo Bartolini che sono una sorta di topic dell’evento italiano; il corpo delle foto,  ovvero i luoghi di Ghirri che catturano la profumazione studiata da un maestro profumiere per l’opera immateriale di Luca Vitone dal titolo “per l’eternità” quasi a voler  esorcizzare  gli odori nauseabondi della decomposizione corporale. Le performance di Francesca Grilli, Marcello Maloberti , Fabio Mauri e Sisley Xhafa; Mauri si cimenta con la storia – d’altronde l’Italia cade a pezzi- visto che è qui in Biennale per la sesta volta, e guarda casa ci presenta una ragazza “giovane italiana” memoria del ventennio; mentre Francesco Arena coglie i buchi della storia,  e ha avuto la bella idea di pensare non al futuro ma a vere fosse comuni ; non manca per l’Italia anche il kosovaro Xhafa attivo nel giardino dell’Arsenale,  che ha deciso sull’esempio del  Cattelan dei bambini impiccati all’albero in piazza venticinque aprile a Milano, di movimentare una performance tra rami e fronde attraverso una scala di corda; i visitatori potranno salire sulla cima dell’albero a farsi sbarbare da  Sisley Shafa lì presente con tanto di rasoi; dal barbiere vi è stato anche Bartolomeo Pietromarchi. Flavio Favelli e Maloberti sono attivi tra autobiografia e tradizioni popolari, il primo con le decorazioni di feste patronali del sud, come fece già nell’estate 2012 in un Palazzo  a Specchia nel Salento presentando parti di decorazioni smontate  dalla festa patronale di San Trifone ad Alessano. La Elisabetta Benassi con la videoarte è pronta al compito di archiviare e classificare, ma ha già disseminato i suoi 10.000 mattoni a ricordare le imprese impossibili. Giulio Paolini e Marco Tirelli  inseguono l’illusione; Massimo Bartolini, la Francesca Grilli e Gianfranco Baruchello (è il più anziano  in mostra, nato nel 1924) si cimentano tra suono e silenzio, libertà di parola e censura. I sette confronti, i sette face-to-face, nuove e vecchie generazioni, sono alle prese con un atlante ancora tutto da cartografare, altro che storia d’Italia. Siamo ancora alla memoria civile dei Sepolcri del Foscolo. Povera Italia, per fortuna -non troppa per la verità- che dal Salento è stato a Venezia in apertura della Biennale quel novello Ministro dei Beni Culturali che è Bray, il quale ha annunciato in un predicozzo che è ora che gli italiani, non sappiamo se del Nord o del Sud, paghino 5 euro  per l’impianto del prossimo Padiglione italiano alla  Biennale  del 2015.

 Carlo Franza

 

 

 

 

 

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